La tradizione di questo piatto affonda le sue radici nel rione Regola e la prima versione sembra esser nata intorno al 1300 (c’è chi la fa risalire addirittura all’Antica Roma). Lo storico Rione era infatti abitato dai lavoratori del mattatoio Flaminio, i vaccinari, alla cui Confraternita papa Pio V affidò nel 1570 una chiesa, poi dedicata a San Bartolomeo, patrono dei vaccinari.
I vaccinari erano chiamati anche “scortichini”, in quanto avevano l’ingrato compito di svolgere il lavoro più faticoso: scuoiare le carcasse degli animali.
Erano gli operai più poveri e la loro misera retribuzione era integrata dalla testa delle bestie macellate – di cui si utilizzava muso, cervello, guance, lingua, orecchie, palato e persino gli occhi – e dalla coda della bestia spellata, utilizzata quest’ultima per fare il brodo.
Nel 1891, con l’aumento demografico, la città da ormai 20 anni Capitale d’Italia trasferì il mattatoio a Testaccio, dove si poté occupare uno spazio maggiore: il numero delle macellazioni aumentò notevolmente.
I vaccinari si trovarono così a disporre di un maggior numero di teste e di code e, oltre a far divenire frattaglie e affini le protagoniste assolute delle tavole romane, si ingegnarono a trovare per questi pezzi un utilizzo migliore e più soddisfacente: rivenderle alle numerose osterie sorte proprio in quel periodo all’ombra del Monte dei Cocci.
La collina si era formata per la consuetudine nell’antica Roma di distruggere, nei pressi del porto fluviale, gli orci di terracotta in cui giungevano le derrate alimentari: vino, olio, granaglie, garum ecc. I cocci, sistemati ordinatamente gli uni sugli altri, nei secoli formarono un piccolo monte alto circa settanta metri con un diametro di ottocento, ricco di anfratti e camere d’aria che garantivano, al suo interno, una temperatura fresca e costante adatta alla conservazione delle merci deperibili.
Il Testaccio era definito dal Belli “….il luogo dove la plebe corre nella primavera, e più in ottobre a gozzovigliare, stanteché nel monte formatosi ne’ bassi tempi di rottami di vasi (testa) e quindi detto Testaccio, sono scavate grotte entro le quali si mantengono freschissimi i vini. Il prato, inoltre, che trovasi innanzi a detto monte e alla famosa piramide dell’epulone C. Cestio è molto opportuno ai sollazzi romorosi.”
Alcune osterie si adoperarono per cucinare le parti di scarto, il cosiddetto “quinto quarto”.
L’ispirazione per la ricetta della Coda alla Vaccinara fu data dallo “stufatino col sellero” (sedano), preparazione già di per sé gustosa, ma l’aggiunta di ingredienti preziosi trasformò il nuovo piatto in una ghiottoneria ricercata. L’idea geniale pare sia tutta da ricondurre a Ferminia Mariani che, in cucina con i genitori, creò una ricetta tutta sua, cuocendo insieme alla coda anche le guance del bue, i cosiddetti gaffi, che conferivano morbidezza e sapore unici al piatto, aggiungendo, a cottura quasi ultimata sedano, uvetta, pinoli e cioccolato amaro.
La bontà del piatto ebbe eco e negli anni Trenta del Novecento, il locale cominciò ad essere frequentato dalla buona società romana.
È un piatto dalla duplice personalità: per un verso è un piatto povero, da molti giudicato espressione di quella romanità grossolana e volgare; per l’altro verso, invece, è un cibo sontuoso, degno di grande considerazione, che può regalare intense emozioni ai veri buongustai.
È infatti il piatto più regale del quinto quarto romano, fors’anche per la complessità della preparazione, ma soprattutto per il richiamo alla specialità regina dei banchetti aristocratici, lo “stufato di bue col sellero”, appunto, grazie al sedano che era considerato pianta nobile e a lungo appannaggio dei ricchi signori.
Di varianti se ne contano diverse, ma chiunque voglia rimanere nel solco della tradizione, di certo non può prescindere da alcuni fondamentali ingredienti quali la salsa di pomodoro, il sedano, il cacao amaro; la ricetta originale prevedeva anche l’uso di lardo.
Ed ecco la mia “Coda alla Vaccinara”: è buona, vi assicuro, anche se non proprio leggera ma semel in anno licet insanire!
- In un buon letto di olio d’oliva (il lardo mi sembra davvero troppo!), faccio soffriggere dolcemente abbondante battuto di sedano, carota e cipolla.
- Aggiungo i pezzi di coda. Il soffritto è abbastanza lungo, perché la coda, essendo grassa, rilascia liquido.
- Sfumo con vino bianco che deve evaporare lentamente a tegame coperto.
- Aggiungo ancora altro battuto che deve ricoprire completamente la carne, completo il soffritto e quindi verso la passata di pomodoro.
- La cottura è lunga, ma i tempi si possono dimezzare con la pentola a pressione.
- Sul finire della cottura, aggiungo sale, pepe e noce moscata.
- Il sugo è cotto quando l’olio “si separa” dal pomodoro (sempre gli insegnamenti di mia nonna) e la carne si stacca dall’osso.
Come si mangia?
La carne così cotta nel sugo è buonissima, più di uno spezzatino. Ma “la morte sua so’ i rigatoni”!
Sempre a tavola una formaggera con pecorino, per chi gradisce il formaggio.
E mentre si mangia la pasta, bisogna completare la nostra Coda alla Vaccinara con la finezza finale, il gourmet, aggiungendo pinoli, altro sedano bollito e a rondelle, l’uvetta ammollata e strizzata e il cacao amaro (una punta di cucchiaino, ma meglio scioglierlo in un po’ di sugo)!
E buon appetito!
Anna Maria