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Albrecht Dürer e la visione rinascimentale «faber fortunae suae»

Uno dei maggiori rappresentanti del Rinascimento nord europeo e tra i più grandi artisti tedeschi di sempre è stato Albrecht Dürer.

Mossi i primi passi nella bottega del padre, Albrecht Dürer il vecchio, incisore e orefice, la sua vera formazione artistica avvenne in varie nazioni: Germania, Olanda, Francia, Svizzera, ma fu il suo primo viaggio in Italia, nello specifico a Venezia, ad affascinarlo e ad influenzare la sua arte

Se la vivacità dei colori e l’attenzione al dettaglio dei suoi dipinti sono tipici del Bellini, il suo grande ispiratore fu certamente Leonardo.

Lungimirante  nell’imprenditoria, anticipando tutti nel suo tempo, può essere considerato l’inventore del “copyright”: richiese – ed ottenne! – all’imperatore un atto che tutelasse la sua firma.

Quando si rese conto che le sue stampe incontravano il gusto del pubblico, cominciò a lavorare autonomamente. In pratica con lui mutò un principio di base del mercato d’arte dell’epoca: l’artista anticipava le richieste del committente. 

Era un personaggio molto influente, forse perché molto attento alle vicende politiche e sociali della sua epoca.

Una delle sue opere più famose è “Il Cavaliere, la morte e il diavolo” che evidenzia la crisi del mondo cattolico, tentato dalle lusinghe della ricchezza e del potere.

Vediamo perché.

L’incisione a bulino su lastra di rame mostra, su uno sfondo di una terra desolata – che prende spunto da Dante – un cavaliere cinquecentesco, chiuso nell’armatura della fede, la morte con la clessidra in mano, simbolo del tempo che resta,  e il diavolo, che impugna un’alabarda e ha le fattezze grottesche di un incrocio di animali cornuti; tra le gambe del cavallo che procede al trotto corre un cane, simbolo di fedeltà.

È fondamentalmente la rappresentazione simbolica di una condotta spirituale strettamente connessa alla salvezza.

Il cavaliere, statuario nella sua postura, vestito di una splendida armatura, con un elmo sul capo e armato di spada e di lancia, cavalca indomito su un maestoso destriero. Illuminato da una luce che ne fa risaltare, sin nei minimi particolari, la ferrea decisione, il cavaliere si dirige, sorretto da una indomabile fede religiosa, simboleggiata dal cane, verso una meta lontana. Si tratta di una città fortificata che molti hanno pensato essere Norimberga, la città natale di Dürer, ma che più plausibilmente si potrebbe identificare con la Gerusalemme celeste dell’Apocalisse, ossia la meta ultima di ogni cristiano.

La morte, è raffigurata come un orribile e cadaverico personaggio, quasi una sorta di doppio negativo del cavaliere, che cavalca uno scheletrico cavallo con il muso volto verso terra. Porta sul capo, il cui collo è circondato da serpenti, una corona regale e impugna la clessidra, simbolo della caducità dell’esistenza di cui la morte è la signora.

Alle spalle del cavaliere compare il secondo compagno di viaggio, il diavolo, che mostra, in uno strano mix di tradizione e fantasia, un viso da porco, lunghe orecchie da lupo, tratti da caprone, un enorme corno a forma di mezzaluna e impugna una picca. Sul terreno, accidentato e sassoso, oltre a un teschio e un cane dal tratto elegante, è visibile una salamandra.

Come si può facilmente dedurre da questa sommaria descrizione, l’opera ha avuto, ed ha tuttora, uno straordinario potere evocativo ed esortativo, oggettivando quella tensione morale in cui, soprattutto nel mondo germanico, religiosità, umanesimo, forza morale, antica cavalleria, fermenti esoterici e spirituali si richiamavano l’un l’altro.

In questo senso il cavaliere diventa l’archetipo dell’eroe che ciascuno e, particolarmente, il popolo germanico, avrebbe dovuto incarnare, soprattutto in una epoca di decadenza come quella in cui si trovava l’Occidente.

L’incisione de “Il Cavaliere, la morte e il diavolo” si presta quindi, dal punto di vista simbolico, a molte possibilità interpretative. Sono possibilità che si possono ricondurre ad alcuni tratti fondamentali, rispecchiati dalle varie figurazioni che ne occupano la scena. Ricco di simbologie – che non è qui dato tempo di decifrare – ha come chiave di lettura più evidente il ritorno dalle Crociate, di un cristiano deluso e disilluso, che incontra una misteriosa creatura, che lo sfida. Il cavaliere continua la sua andatura, pur sapendo che inevitabilmente perderà: il suo avversario, infatti, è la morte, dalla quale “nullu homo vivente pò skappare”, come ci ricorda San Francesco.

Nonostante ciò, il cavaliere avanza imperterrito, perché, come ogni uomo dell’umanesimo, sa che vincerà ogni male, in quanto “faber suae quisquae fortunae”.

Un’icona, dunque, di una solida fede che non si lascia scalfire da diaboliche tentazioni e non teme l’agguato della morte. Concetto a fondamento della riforma protestante di Lutero!

Interessante, a questo punto, la data di realizzazione dell’opera: 1513 cioè ben quattro anni prima che il monaco agostiniano affiggesse sulla porta della Cattedrale di Wittenberg le sue tesi che daranno vita alla nuova confessione.

Altra opera che assume un importante valore simbolico è l’autoritratto con pelliccia. Nel dipinto il volto dell’artista, in posizione rigidamente frontale, somiglia a quello di Cristo. A sottolineare quest’analogia tra il pittore e Cristo c’è anche la ieraticità e la semplificazione dei volumi, di ascendenza bizantina, la posizione della mano, splendidamente descritta, che ricorda il tradizionale gesto benedicente del Salvatore. Il paragone può apparire blasfemo, ma in realtà quella somiglianza  dimostra che tutti gli uomini sono stati creati a immagine di Dio.

La riproduzione fedele della natura fu uno dei tratti distintivi della sua arte

Una delle sue opere più celebri è quella del leprotto, tanto preciso da sembrare una fotografia.

Del 1515 è la bellissima stampa di un rinoceronte, animale che l’artista non aveva mai visto; per realizzarlo si era infatti basato su di una descrizione e un fugace schizzo che un uomo di affari di Lisbona aveva inviato a un amico di Norimberga.

Simbologia, fantasia, attenzione al dettaglio, riproduzione della realtà sono i tratti distintivi di un artista che cominciò a lavorare autonomamente, senza attendere le commissioni, immettendo sul mercato dell’arte oggetti e opere che diventarono pregiati complementi di arredo nelle case dei ricchi borghesi, dimostrando che l’artista è molto più di un artigiano, concetto impensabile nell’Europa del Nord in quel XVI secolo.

Anna Maria

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