La spettacolare Deposizione di Cristo di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto (1518-1594), il grande pittore veneziano che Vasari definì “il più terribile cervello che abbia mai avuto la pittura”, è custodita alle Gallerie dell’Accademia di Venezia
È una tela monumentale (m 2,94 x 2,27), dallo stile impetuoso e drammatico, che solo grazie al felice intervento di restauro del 2008 se ne è recuperato pienamente lo splendore artistico, restituendone la paternità.
La grande tela fu eseguita per l’altare maggiore della chiesa gesuita di Santa Maria dell’Umiltà alle Zattere, soppressa nel 1806 e demolita nel 1821. Divenuta proprietà demaniale, l’opera fu successivamente assegnata all’Accademia di Venezia dove è rimasta per lo più ignorata o sottostimata dalla critica fino al restauro condotto da Giulio Bono nel 2008-2009 che ne ha restituito tutta la qualità, permettendone la riscoperta e l’ascesa tra i capolavori autografi del pittore.
Il dipinto raffigura il momento in cui il corpo senza vita di Cristo è stato rimosso dalla croce, come alludono la scala vuota sul fondo e il martello e le pinze in basso a destra. Giuseppe d’Arimatea sorregge Gesù da dietro, mentre Maria, svenuta tra le braccia di una pia donna, forse Maria di Cleofa, lo accoglie sul suo grembo. La Maddalena chiude il gruppo dei personaggi, chinandosi verso il volto di Cristo e allargando le braccia in un gesto di struggente disperazione.
La figura di Maria è certamente la più significativa ed emozionante: il suo colorito cereo, cadaverico come quello del figlio, rende l’idea del suo immenso dolore, ulteriormente esaltato dalle altre due figure femminili.
Le figure sono più grandi del naturale e da esse trapela un grande senso di spiritualità: la Vergine tocca con una mano i piedi di Gesù, la parte più umile del corpo, a ricordare che la tela fosse stata eseguita per la chiesa gesuita di Santa Maria dell’Umiltà.
A Venezia, infatti, in quel periodo già circolavano le prime direttive del Concilio di Trento e Tintoretto in questa tela interpreta con una forte empatia il concetto della partecipazione dei fedeli al dolore di Maria e alla passione di Cristo.
È dunque una composizione geniale che rompe gli schemi, con due linee oblique parallele (una con le figure maschili e l’altra con quelle femminili) unite in basso a formare una croce dalla figura di Maria “l’umana che ha partorito il Divino”, creando un insieme profondamente significativo.
Evidente il plasticismo michelangiolesco, anche se Tintoretto rimase sempre a Venezia: fu Michelangelo ad arrivare nella città lagunare e a soggiornarvi per un brevissimo periodo, destando in Tintoretto un’ammirazione tale da ottenere molti disegni delle opere del Maestro fiorentino, dal quale si lasciò compiutamente influenzare.
La maggior parte degli studiosi concorda per la datazione del dipinto intorno ai primi anni Sessanta del Cinquecento; precede, quindi, di diversi anni “La Deposizione al sepolcro” (1594) del monastero di San Giorgio Maggiore, che è considerata l’ultima opera in cui è possibile riconoscere la mano del Tintoretto.
Nel percorso artistico del grande maestro veneto, dunque quest’opera si colloca all’apice della sua carriera, quando Tintoretto aveva ormai messo a punto lo stile, la tecnica e la pratica di esecuzione.
Ispirandosi al disegno di Michelangelo e al colore di Tiziano, il Robusti diede infatti vita a un linguaggio pittorico molto personale, che rispecchia la sua intensa visione religiosa ispirata ai valori della Controriforma.
A differenza della serenità bucolica delle opere di Giorgione e del primo Tiziano, le figure del Tintoretto esprimono una gestualità altamente emotiva, essendo allungate o sottoposte a torsioni poco naturali, il cui effetto drammatico è accentuato da forti contrasti chiaroscurali.
Effettivamente, da buon allievo – seppur per pochi giorni – di Tiziano, Tintoretto esprime appieno lo stile che andava a delinearsi in quegli anni: il manierismo.
E il suo percorso artistico sarà simile a quello del Caravaggio: entrambi allievi per un breve periodo del miglior artista del momento – Tiziano per Tintoretto e il Cavalier d’Arpino per Caravaggio – entrambi espressione di un nuovo stile che cambierà l’arte; entrambi entrarono presto in conflitto con i rispettivi maestri che videro subito negli allievi i futuri rivali.
Anche la pittura del Tintoretto suscitò molte critiche, perché ritenuta troppo stravagante e sbrigativa, quando invece fu proprio la sua velocità d’esecuzione a permettergli di giocare d’anticipo sulla concorrenza e di ottenere numerose e prestigiose commissioni.
Fu soprannominato “Il furioso” per l’energia delle sue opere. Lo stile dei suoi dipinti è caratterizzato da un uso esasperato (e a volte ardito) della prospettiva, che conferisce alle opere una profondità quasi innaturale che colpisce immediatamente l’osservatore.
Il filosofo Jean-Paul Sartre disse di lui: “Tintoretto è Venezia anche se non dipinge Venezia”.
Fu indubbiamente un talento precocissimo: già nel 1538 Jacopo, ventenne, aveva aperto una sua bottega e nel 1548 ottenne il primo successo pubblico con il “Miracolo dello Schiavo”, per il quale ricevette le lodi pubbliche di Pietro Aretino.
Vivace, dalla risposta pronta e senza soccombere alle critiche poco costruttive, rispose all’accusa di Ludovico Dolce “…di colorare meno bene di Tiziano perché i colori si potevano trovare già pronti a Rialto, mentre l’arte del disegno soltanto nello scrigno del talento”.
Anna Maria
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