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6 aprile 1520: muore Raffaello, il “divino”

Raffaello nacque a Urbino «l’anno 1483, il venerdì prima di Pasqua, alle tre di notte, da un tale Giovanni de’ Santi, pittore non meno eccellente, ma sì bene uomo di buono ingegno, e atto a indirizzare i figli per quella buona via, che a lui, per mala fortuna sua, non era stata mostra nella sua bellissima gioventù».

La notizia del Vasari comporta che Raffaello sia nato il 28 marzo (venerdì santo). Tuttavia esiste un’altra versione secondo la quale il giorno di nascita del maestro urbinate dovrebbe essere il 6 aprile (domenica), facendo così coincidere il giorno della nascita con quello della morte solo 37 anni dopo, apparentemente coincidente con quella di Cristo – ore 3 del 6 aprile, venerdì prima di Pasqua – corrispondano esattamente con la data della sua nascita. Naturalmente, tutto questo ha il sapore della leggenda e se si può ritenere sufficientemente certo il giorno della sua morte, non può essere così per quello della sua nascita.

Raffaello fu il primo e unico figlio di Giovanni Santi e di Màgia di Nicola Ciarla.

Il cognome “Sanzio” con cui è noto Raffaello altro non è che la declinazione di “Santi” all’ablativo.

L’incontro tra i due genitori e la vita matrimoniale che ne scaturì è avvolta da romanticismo. Le rispettive abitazioni erano adiacenti e messe in comunicazione da un leggiadro cortiletto, appartenete a casa Santi, fornito addirittura di pozzo, che rendeva la dimora signorilmente apprezzata per l’indipendenza nel difficile approvvigionamento quotidiano dell’acqua necessaria per tutte le attività nella non facile vita del 1400. Un innamoramento fatto di sguardi, insomma. Ma, come è accaduto alle donne per secoli e millenni, madri di persone comuni o madri di uomini passati alla storia, di Màgia Ciarla non resta una parola, una immagine, una frase, neanche una data di nascita certa. Solo si sa che andò in sposa giovanissima a Giovanni Santi, poco più che quarantenne. Le poche notizie si hanno dal testamento del marito: dote cospicua, ricco il guardaroba, vestiario raffinato. Di buona famiglia se è stata chiesta in moglie dal facoltoso e già relativamente celebre Giovanni, che onorerà la giovane moglie pagando per il suo funerale alla chiesa di San Francesco ben quattordici libbre di candele, otto di più di quelle pagate per la madre.

Màgia Ciarla morì quando Raffaello aveva otto anni e a quell’età le perdite si interiorizzano. Un genitore non precipita mai nell’oblio, vive in una forma particolare in chi ha subito la perdita. L’impronta e il segno del perduto non si cancellano e non spariscono se sparisce chi li ha donati. Màgia Ciarla è restata, silente, dentro Raffaello con i suoi segni e la sua impronta. Indefinibili, indeterminabili, ma non negabili o da ignorare come se non fosse esistita. È certamente rintracciabile nelle tante Madonne di Raffaello: dolci, a volte malinconiche, a volte con un lieve sorriso, sempre raffinate, tènere nel tenére il corpo del bambino, sempre in contatto con il Figlio: a volte toccano i piedi di Gesù, altre lo stringono al petto, altre ancora sono sul punto di giocare con lui. Raffaello traduce su tela il ricordo dell’abbraccio della madre che gli era stato precocemente sottratto.

Non a caso il primo dipinto attribuibile ad un giovanissimo e precocissimo Raffaello è proprio una Madonna: l’affresco di Casa Santi.

Maria è seduta di profilo entro una nicchia, col Bambino addormentato in grembo, teneramente accarezzato da un abbraccio. È rappresentata fino alle ginocchia ed è intenta alla lettura di un libro posto su di un leggio davanti a lei. L’ombra nella nicchia evidenzia il profilo, che rimanda ad esempi fiorentini della metà del XV secolo, filtrati probabilmente da Piero della Francesca, che certamente Raffaello aveva conosciuto mentre lavorava ad Urbino. La stessa atmosfera rarefatta, i colori chiari e tersi, l’attenzione alla luce, rimandano ai modelli che circolavano allora alla corte urbinate. Sembra preannunciare quel modo di esprimere di Raffaello l’intimità tra madre e figlio, il modo di legare le due figure – anche con il gioco del chiaroscuro – e il naturale atteggiamento di Gesù, teneramente addormentato mentre sta accovacciato in grembo. Da Lei traspare un’aria così dolce e casalinga che ha fatto supporre alla più antica critica artistica che l’affresco fosse stato eseguito da Giovanni Santi, il quale avrebbe voluto ritrarvi la propria moglie con in braccio un Raffaello tenerissimo pargoletto. Tale ipotesi è stata smentita da non pochi studiosi che riconoscono l’affresco come primissimo lavoro di Raffaello, operato sotto la direzione di suo padre. Dunque nel mirabile affresco si possono già intravedere i moduli ancora acerbi di Raffaello “fanciullo prodigio”.

L’affresco costituisce una sorta di saggio veloce del talento di Raffaello e trova riscontro soprattutto con il suo modo di intendere la luce, nella cui rappresentazione ha raggiunto presto livelli qualitativi mai raggiunti da suo padre.

Nella formazione di Raffaello fu determinante il fatto di essere nato e di aver trascorso la giovinezza a Urbino, che in quel periodo era un centro artistico di primaria importanza che irradiava in Italia e in Europa gli ideali del Rinascimento. Qui Raffaello, avendo accesso con il padre alle sale del Palazzo Ducale, ebbe modo di studiare le opere, tra gli altri, di Piero della Francesca.

Giovanni Santi almeno dagli anni Ottanta del Quattrocento era a capo di una fiorente bottega, impegnata nella creazione di opere per l’aristocrazia locale e per la famiglia ducale, nonché nell’allestimento di spettacoli teatrali.

Ad undici anni Raffaello rimase orfano anche di padre e questa prematura scomparsa ridimensionò i suoi studi. Certo è che, seppur valente, non aveva il titolo per subentrare alla direzione della bottega paterna. Conseguì l’abilitazione necessaria, il titolo di magister che dava il permesso di esercitare l’attività di pittore, all’età di diciassette anni nella bottega del Perugino.

Non è noto attraverso quali vie arrivò a far parte di questa illustre bottega: non sembra infatti credibile la notizia del Vasari, secondo la quale Raffaello sia stato allievo del Perugino ancora prima della morte del padre e addirittura di quella della madre. Probabilmente ebbe modo di frequentarla a seguito del padre. Le prime tracce della presenza di Raffaello accanto a Perugino sono legate ad alcuni lavori della sua bottega tra il 1497 e il nuovo secolo. È altresì comprovato che Raffaello raggiunse rapidamente una maturazione artistica che non può prescindere da un avviamento molto precoce alla professione pittorica.

Perugia, Città di Castello, Siena e Firenze. La fama di Raffaello ormai dilagava e giunse a Roma, dove il Papa Giulio II gli affidò l’incarico, licenziando tutti gli altri pittori, per la decorazione delle Stanze vaticane. I lavori cominciarono nel 1508 dalla stanza detta della Segnatura che ospitava la biblioteca privata del Papa. Qui dipinse la “Disputa del Sacramento”, la “Scuola di Atene” e “Il Parnaso”.

Sotto il pontificato di Leone X, e alla morte del Bramante, Raffaello fu nominato architetto della fabbrica di San Pietro.

Nel frattempo eseguì lavori per i nobili della corte tra i quali il banchiere Chigi, suo grande amico, per il quale progettò le decorazioni della sontuosa villa suburbana, oggi Villa Farnesina, affrescandone alcune pareti e fornì cartoni per l’affresco con Profeti e Sibille in Santa Maria della Pace a Roma e progettò la cappella funeraria in Santa Maria del Popolo che insieme a Villa Madama testimonia la sua attività di architetto.

Raffaello, insieme a Leonardo e Michelangelo, incarna la piena espressione dell’arte rinascimentale che si sviluppò nell’area fiorentina agli inizi del 1400 e si diffuse a macchia d’olio prima nel resto d’Italia e, in seguito, in Europa.

Gli elementi che caratterizzarono il nuovo stile sono essenzialmente tre, tutti necessari e sufficienti per definire un’opera pienamente rinascimentale:

La definizione delle tecniche della prospettiva lineare centrica, necessarie per la gestione complessiva dello spazio e degli elementi che compongono l’opera d’arte;
L’accentuata attenzione alla rappresentazione dell’individualità dell’uomo, sia da un punto di vista anatomico che dei suoi sentimenti e delle sue emozioni;
Il rifiuto degli accessori di decorazione, con un deciso ritorno alla rappresentazione essenziale.
Il Rinascimento è stato un nuovo modo di immaginare e rappresentare la realtà del mondo nella sua totalità.

Ma l’arte figurativa e architettonica non fu la sola “arte” a cui si dedicò Raffaello. L’ars amatoria lo rese altrettanto celebre, tanto che non possiamo sapere quanti cuori femminili abbia straziato il bel Raffaello Sanzio. Su di lui fiorirono le leggende romane non appena giunse a Roma: amò riamato splendide donne, divenute quasi tutte modelle. Tra di esse anche la Divina Imperia, la più nota cortigiana del tempo, amante anche del caro amico Agostino Chigi, morto appena cinque giorni dopo Raffaello.

Ma l’arte per la quale era altrettanto versatile capitolò di fronte ad una ragazzina, la figlia di un fornaio di Trastevere, talmente bella che appena Raffaello la vide ne rimase folgorato. Era Margherita Luti, una giovane di origine senese, figlia di Francesco Luti, fornaio a Roma. Il soprannome “Fornarina” le derivava proprio dal mestiere del padre, unica donna che abbia davvero conquistato il principe delle arti, colui che amava la bellezza in ogni forma e i piaceri della vita.

Si racconta che il primo incontro fra i due avvenne fra le strade di Trastevere, poco distante dalla villa suburbana del Chigi dove Raffaello aveva il cantiere aperto. Lei era affacciata ad una finestra e lui, passeggiando con gli occhi al cielo, alla vista della fanciulla intenta a pettinarsi, se ne innamorò perdutamente. Una passione travolgente tanto da volere la fanciulla sempre con sé. Margherita divenne la musa di molti suoi quadri; certamente è la protagonista della Velata e della famosissima Fornarina, conservata a Palazzo Barberini.

Probabilmente Raffaello fece questo dipinto per se stesso. La sua amata dagli occhi bruni, profondi, e i tratti marcati è raffigurata come una Venere pudica, ritratta nell’atto di coprirsi le nudità, gesto che in realtà attira lo sguardo su ciò che vorrebbe nascondere. La posa delle mani, una appoggiata sul grembo, l’altra su un seno, rimanda alla statuaria classica. La pelle candida è invasa di luce in un meraviglioso contrasto con la penombra dello sfondo che la fa balzare fuori. Nella parte alta del dipinto si intravede il contorno di un cespuglio di mirto, attributo di Venere e simbolo della fedeltà matrimoniale, e di un ramo di melo cotogno, simbolo di fertilità. Sul bracciale “alla schiava” che le cinge il braccio si legge chiaramente la firma elegante in oro: Raphael Urbinas. I capelli neri appaiono raccolti in un lungo drappo oro e blu annodato sulla nuca, un turbante orientale tanto in voga in quegli anni. Il viso è regolare, la bocca piuttosto carnosa e le gote leggermente arrossate. Tra la seta del turbante appare anche un gioiello, una perla sulla fronte, che ritorna anche sul capo della Velata. È uno stratagemma dell’artista per celare nell’opera il nome della donna ritratta, la sua amata Margherita che nell’accezione greca, margaritès, significa appunto “perla, gemma”.

Un bracciale e una perla, il mirto e il cotogno. La soluzione di un rebus per dire questa è Margherita e Margherita adesso è mia, comprovata dalla scoperta nel corso dell’ultimo restauro: un anello, una vera all’anulare sinistro disegnato e dallo stesso Raffaello probabilmente cancellato. Ebbene, pare che Raffaello, nonostante fosse promesso sposo di Maria Bibbiena, nipote del potente cardinale, sia convolato a nozze con Margherita in gran segreto. Non a caso, prima di morire, Raffaello le lasciò una cospicua somma e sembra inoltre che la poveretta non abbia potuto assistere il suo amato nel letto di morte poiché allontanata dalla casa ma, che durante le esequie, si fece largo tra la folla per raggiungere la bara in preda alla disperazione.

Raffaello morì il 6 aprile 1520. Secondo Vasari la morte sopraggiunse dopo quindici giorni di malattia, iniziatasi con una febbre “continua e acuta”, causata secondo il biografo, da “eccessi amorosi”, e inutilmente curata con ripetuti salassi. In realtà Raffaello morì di polmonite. Margherita decise di ritirarsi a vita monastica nel convento di Sant’Apollonia a Trastevere. E un documento attesta che: «al dì 18 agosto 1520, oggi è stata ricevuta nel nostro conservatorio Madama Margherita, vedoa, figliuola del quodam Francesco Luti di Siena». Morì appena due anni dopo.

Raffaello non perdeva occasione per esaltare la bellezza della sua amata e renderla eterna nelle opere. Ed è ancora lei e sempre lei nella Madonna del Sasso del Lorenzetto, voluta dallo stesso Raffaello a vegliare sulla sua tomba.

Altra aurea di leggenda aleggia intorno alla morte di Raffaello, che già per la sua arte si era procurato l’attributo di “divino”. Si narra che al momento della sua morte una crepa scosse il palazzo vaticano, forse per effetto di un piccolo terremoto, e che i cieli si fossero agitati. Scrisse Pandolfo Pico della Mirandola a Isabella d’Este che il papa, per paura, «dalle sue stantie è andato a stare in quelle che feze fare papa Innocentio». Un leit motiv dei contemporanei del Sanzio all’apogeo del suo successo, che lo consideravano tanto “divino” da paragonarlo a una reincarnazione di Cristo: come lui era morto di Venerdì santo e a lungo venne distorta la sua data di nascita per farla coincidere con un altro Venerdì santo. Lo stesso aspetto con la barba e i capelli lunghi e lisci scriminati al centro ricordavano l’effigie del Cristo e, come scrisse Pietro Paolo Lomazzo, la nobiltà e la bellezza di Raffaello «rassomigliava a quella che tutti gli eccellenti pittori rappresentano nel Nostro Signore». Al coro di lodi si unì Vasari, che lo ricordò «natura dotato di tutta quella modestia e bontà che suole vedersi in colore che più degli altri hanno a certa umanità di natura gentile aggiunto un ornamento bellissimo d’una graziata affabilità».

Tanto da donargli la dimora eterna in Santa Maria dei Martiri, nata come Pantheon, tempio di tutti gli dei.

«Qui sta quel Raffaello, mentre era vivo il quale, la gran madre delle cose temette d’esser vinta e, mentre moriva, di morire».

Anna Maria

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