Femmicidio e femminicidio sono due termini specifici che definiscono in maniera non neutra gli omicidi contro le donne, in tutte le loro manifestazioni, per motivi legati al genere. Questi tipi di uccisione che colpiscono la donna perché donna non costituiscono incidenti isolati, frutto di perdite improvvise di controllo o di patologie psichiatriche, ma si configurano come l’ultimo atto di un continuum di violenza di carattere economico, psicologico, fisico o sessuale.
Le discriminazioni di genere, gli stereotipi sulle donne radicati nel substrato socio-culturale, la divisione di ruoli e l’esistenza di relazioni di potere disuguali tra donne e uomini sono fattori che costringono la donna a permanere in una condizione di subalternità in cui si alimenta il ciclo della violenza. I femmicidi/ femminicidi sono pertanto gesti estremi di violenza che sottendono una realtà complessa di oppressione, di disuguaglianze, di abusi, di violenza e di violazione sistematica dei diritti delle donne.
I due concetti si sono diffusi in Europa soltanto a partire dai primi anni del XXI secolo e sono entrati ormai a far parte del linguaggio comune e mediatico come alternativa alla natura neutra della parola omicidio; i termini femmicidio e femminicidio si riferiscono in realtà a due concetti tendenzialmente simili ma con sfumature di significato diverse, che l’informazione tende a confondere, distorcere o a equiparare.
Il femmicidio, dall’inglese femicide, indica le uccisioni delle donne da parte degli uomini per il fatto di essere donne (Per essere precisi, la parola femmicidio era già in uso nell’Ottocento per indicare l’assassinio di una donna in quanto tale. E in tal senso era contemplato nel law lexicon del 1848 come crimine perseguibile). Secondo quanto formulato da Diana Russell «il concetto di femmicidio si estende al di là della definizione giuridica di assassinio e include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito/la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine».
Forma estrema di violenza, il femmicidio trova pertanto il suo fondamento nella violenza misogina e sessista dell’uomo radicata nelle nostre società. Questo tipo di omicidio rappresenta un problema sociale che attiene alla dimensione dell’oppressione e della disuguaglianza tra uomini e donne, rilevando la complessa relazione tra la violenza e la discriminazione sessuale. Da quanto emerge dal primo Rapporto mondiale sul tema (Nazioni Unite, 2012), gli omicidi basati sul genere, nelle loro diverse forme e manifestazioni, continuano a essere socialmente accettati, tollerati e giustificati, raggiungendo proporzioni allarmanti a livello mondiale.
Diversamente, il termine femminicidio, dallo spagnolo feminicidio, racchiude un significato molto più complesso che supera la definizione ristretta di femmicidio, focalizzandosi soprattutto sugli aspetti sociologici della violenza e sulle implicazioni politico-sociali del fenomeno. Il femminicidio, a differenza da quanto si possa comunemente ritenere, non si configura come un fatto isolato che accade all’improvviso, ma costituisce l’ultimo atto all’interno di un ciclo della violenza. In questo senso, il femminicidio individua una responsabilità sociale nel persistere, ancora oggi, di un modello socio-culturale patriarcale, in cui la donna occupa una posizione di subordinazione, divenendo soggetto discriminabile, violabile, uccidibile. Sul piano dei comportamenti individuali, il femminicidio può essere visto come la massima espressione del potere e del controllo dell’uomo sulla donna, l’estremizzazione di condotte misogine e discriminatorie fondate sulla disuguaglianza di genere.
Grazie alle lotte dei movimenti femministi e al lavoro della ricerca scientifica, il termine femminicidio ha acquisito una forte connotazione politica, al punto che in numerosi Paesi latino-americani le istituzioni hanno introdotto la categoria del femminicidio all’interno delle legislazioni penali, avviando un dibattito tutt’altro che lineare sul significato di questo vocabolo.
Diversamente dal femmicidio, il femminicidio comprende un’ampia gamma di atteggiamenti violenti e discriminatori diretti contro la donna in quanto donna che rappresentano una violazione dei suoi diritti e delle sue libertà fondamentali.
Le sfide giuridiche legate all’identificazione delle condotte da incriminare hanno contribuito a generare confusione nel dibattito pubblico, dove cose diverse si chiamano con lo stesso nome e cose identiche con nomi diversi.
Quasi inesorabilmente, le pagine dei giornali sono piene di casi che descrivono la violenza fisica, morale e psicologica compiuta nei confronti delle donne: un numero di episodi che cresce in maniera esponenziale e che continua a spaventare, specie se si pensa ai tanti carnefici responsabili rimasti impuniti. I corteggiamenti spietati e ripetuti, le percosse e gli stupri, le pressioni psicologiche sul lavoro sono spesso le conseguenze di un movente passionale, di un’impossibilità di intendere e di volere, di una semplice perversione che scatenano atti di violenza, non di rado atroci, ai danni di madri, fidanzate e bambine. E il pubblico, ormai “abituato” a questo genere di notizia, si trova spesso davanti a un copione già visto.
Femminicidio e stalking sembrerebbero temi così attuali eppure sono così antichi. Gli episodi tramandati dagli storiografi della letteratura latina e le iscrizioni funerarie di età imperiale sembrano le prime pagine dei giornali del nuovo millennio: stalking e femminicidio, corteggiamenti ossessivi e omicidi violenti.
E dall’antica Roma ad oggi non è cambiato niente.
La storia della letteratura latina è tempestata di episodi di donne uccise dai loro mariti o costrette al suicidio da circostanze divenute insostenibili. Livio, nel suo Ab Urbe Condita, ci ricorda il celebre episodio della cacciata dell’ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo: ad accendere gli animi dell’insurrezione, cui seguì l’instaurazione della Repubblica, fu l’oltraggio compiuto da Sestio Tarquinio, figlio del re tiranno, ai danni della nobile matrona romana Lucrezia, moglie di Collatino, che dopo aver subito la brutalità dello stupro decise di togliersi la vita, lavando con il proprio sangue la macchia della vergogna. Ancora Livio racconta la storia di Virginia, una giovane plebea “corteggiata” e rapita dal patrizio Appio Claudio: l’uomo intentò un processo alla fanciulla, con lo scopo di ridurla al rango di schiava al suo servizio, ma il padre della ragazza, Virginio, che non avrebbe mai accettato un tale destino per la propria figlia, decise di assicurarle la libertà “nell’unico modo in cui gli fu possibile”, ovvero la morte. Lo storico Tacito, invece, in un capitolo degli Annales (XIII, 44), ci tramanda la vicenda di Ponzia Postumia, una donna vissuta al tempo di Nerone, di cui non si conosce nulla eccetto la tragica morte, avvenuta per mano del tribuno della plebe Ottavio Sagitta: il senatore costrinse la donna all’adulterio e dopo una «notte [che] passò in litigi, preghiere, rimproveri, scuse e, in parte effusioni, ad un tratto, quasi fuori di sé, infiammato dalla passione, trafi[sse] col ferro la donna che nulla sospettava». Riconosciuto colpevole, Sagitta fu condannato per omicidio all’esilio su un’isola e dopo 13 anni – nel 70 dopo Cristo – poté rientrare a Roma grazie alla revoca del bando emesso nei suoi confronti.
Nelle sue Confessioni Agostino di Ippona riferisce delle numerose donne che addosso «portavano segni di percosse che ne sfiguravano addirittura l’aspetto».
In realtà, quanto riportato finora, è solo ciò che si deduce dalla documentazione letteraria, ma vi è molto altro. Anna Pasqualini, docente di Antichità romane per oltre 40 anni tra l’università dell’Aquila e quella di Tor Vergata, analizzando lo sterminato corpus di epigrafi latine ritrovate nei territori in cui si estendeva l’impero (in tutto circa 180 mila), ha ricostruito una serie di casi di femminicidio dell’antica Roma. Un’indagine che mostra come la nostra società – in tema di violenza sulle donne – non sia poi così cambiata nel corso del tempo. A conferma di un retaggio culturale difficile da sradicare e che nonostante le campagne di sensibilizzazione non pare attenuarsi: ormai in Italia si conta quasi un assassinio ogni due giorni. «Si tratta di tutte donne della classe media, le cui famiglie potevano permettersi almeno una piccola epigrafe» spiega la Pasqualini. «Possiamo presumere tuttavia che nelle fasce più povere della società la situazione fosse ancora peggiore, visto che storicamente i comportamenti degli strati superiori si riflettono sempre all’ennesima potenza in quelli inferiori». Non mancano nemmeno casi di femminicidio che vedono protagonisti personaggi celebri o donne ricche, tanto da essere citati perfino dagli autori classici. Questa vicenda è raccontata da Filostrato ne “Le Vite dei sofisti”: Erode Attico, uomo ricchissimo e coltissimo – era un retore, filosofo e precettore – fece picchiare dal proprio liberto Alcimedonte la moglie Annia Regilla, colpevole ai suoi occhi di chissà quale mancanza. La donna, all’ottavo mese di gravidanza, morì a causa di parto prematuro indotto dalle percosse ma Erode, portato in giudizio dal cognato Bradua, fu assolto per insufficienza di prove, probabilmente grazie agli agganci politici.
In ogni caso, quella società in cui la violenza era incomparabile rispetto ai nostri standard era però anche così evoluta da prevedere – a partire dal II secolo avanti Cristo – una legge per perseguire il corteggiamento troppo insistente: si chiamava edictum de adtemptata pudicitia e a suo modo può essere considerato l’antenato dello stalking. Un reato meno grave, però, se la vittima era una schiava, vestiva come tale o come una prostituta, a prescindere se lo fosse effettivamente!
Segno che già in epoca romana la presunta provocazione femminile dovuta all’abbigliamento costituiva per l’uomo quella discolpa che ancora oggi viene invocata (e a volte riconosciuta) nei tribunali. D’altronde di che meravigliarsi, se fino al 1981 il codice penale in Italia ancora riconosceva delle attenuanti al delitto d’onore (Codice Penale, art. 587: Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella)?
Si dice sempre che occorre studiare la storia per imparare dai propri errori. Ma quanto tempo dovrà passare ancora e quanti altri nomi di donne dovranno essere ricordate prima che l’uomo impari da quegli errori?
Anna Maria
Visita guidata tematica: Passeggiata per l’Appia Antica, la Regina delle Vie
Visita guidata tematica: Le Donne di Roma