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Finché c’è vita…

Racconto breve di Isabella Leone, 3° classificato al contest “Premio Letterario Villa Faieta 2011”.

 

Cara “lettrice rassegnata”, non perdere mai la speranza di una vita migliore. È vero che superata una certa soglia di età tutto sembra più vuoto, più spento, specie se, come nel tuo caso, non si ha più una famiglia alle spalle. Ma ti voglio raccontare la mia storia, la storia di una donna che è sempre stata sola e che, solo negli ultimi anni, ha ritrovato la serenità e il piacere di stare insieme agli altri.

Ho vissuto badando alla carriera e al successo, e non per una questione di soldi: il mio era un bisogno di realizzazione personale.

Mio marito avrebbe voluto dei figli da me, ma io, troppo presa dalla carriera di manager, non ne volevo sapere: il lavoro era il mio unico pensiero e vi concentravo tutte le mie energie; concludevo affari, firmavo contratti con gran facilità e anche di soldi cominciavo a guadagnarne molti; ma non ero una libera professionista.

È stato questo il dramma: ero dirigente di una società di marketing e quindi soggetta alla dura e inevitabile legge della pensione.

Fu così che a 65 anni arrivò il triste giorno in cui dovetti abbandonare la mia unica ragione di vita, il passatempo delle mie giornate, il mio scopo quotidiano.

La legge della pensione non fu però l’unico motivo per il quale fui esclusa dal progetto. Il mio pensionamento fu una scelta unilaterale: l’azienda mi offrì un incentivo e mi buttò via.

E allora capii: io avevo buttato via la mia vita, il mio matrimonio per quell’azienda che, senza neanche un grazie, mi cestinava per menti giovani…ero dunque vecchia. E sola. I miei compagni di lavoro erano solo colleghi, anzi ex. Non c’era più posto per me nelle cene di lavoro.

Quante volte avevo trascurato mio marito? Quante volte lo avevo lasciato solo per quelle cene? A quale inutile sacrificio avevo sottoposto entrambi? Le persone che avevo sentito più vicine, quelle in cui avevo creduto per tutta la vita, erano solo in attesa di potermi scavalcare ed escludere dal progetto, dal mio progetto che non mi apparteneva più.

Che grande delusione!

Ma mio marito era lì che mi aspettava ancora e finalmente lo avrei potuto ripagare di tutti i sacrifici che aveva fatto per me. Ma proprio nel momento in cui raggiunsi questa consapevolezza, ora che finalmente avremmo potuto trascorrere insieme quei momenti bellissimi negati dalla mia stupida ambizione, la vita me lo portò via.

Il vuoto lasciato da mio marito era ed è a ancora incolmabile: la casa vuota, nulla da fare, nessuno con cui parlare. Mi assalivano rimorsi, rimpianti di una vita che avrei potuto avere e che non avevo. Mi mancava lui, con cui avrei potuto condividere la mia terza età, ma anche dei figli da invitare a pranzo, dei nipotini da portare al parco.

Cominciavo a capire che la realizzazione personale che avevo cercato per tutta la vita e che speravo di trovare nella carriera lavorativa, l’avrei dovuta cercare nelle piccole cose, nel quotidiano, in quella carriera che è sempre giovane e che si chiama famiglia; ma io non avevo una famiglia. Ero sola.

Mi guardavo allo specchio e non vedevo più quell’immagine energica, combattiva e, perché no, piacente della donna in carriera: ora c’era una donna sola, con le sue palpebre stanche, le rughe sul viso, le guance cadenti. Vedevo tutti i miei difetti, che erano i miei unici compagni di vita.

Trascorrevo le giornate a letto, facendo finta di dormire; poi mi trascinavo in salone, accendevo la TV e stazionavo sul divano, spesso con lo sguardo perso. A volte dimenticavo di mangiare, altre volte dimenticavo addirittura di fare la spesa: il frigorifero era vuoto, vuoto come la mia vita. Aspettavo il giorno seguente, sapendo però che sarebbe stato ancor più deprimente di quello precedente.

Il mio modo di vivere non cambiò per molto tempo: ogni tanto uscivo di casa per fare la spesa, ma per il resto nulla, nessuna relazione sociale, nessun contatto con gli altri, assolutamente nulla.

Dopo qualche mese di clausura uscii per comprare delle sigarette. Ripresi il vizio del fumo che avevo perso trent’anni prima. Così ogni sera uscivo, compravo un pacchetto, risalivo a casa e fumavo in balcone. Il fumo fu una compagnia ottima per tutta l’estate e per l’inizio dell’autunno, anche se fumare in balcone iniziava ad essere fastidioso, specialmente nelle serate ventose; ma almeno mi concentravo su qualcosa.

Fu grazie a questo brutto vizio, però, che successe quel qualcosa che mi avrebbe cambiato la vita.

Una sera di fine settembre stavo fumando come al solito sul balcone quando udii una musica travolgente, un ritmo incalzante e sensuale. Allora mi ricordai che il negozio di abbigliamento che c’era proprio al palazzo di fronte aveva chiuso e lì avevano aperto una scuola di ballo. Anche essendo un’ignorante nel campo musicale, non potevo non riconoscere la musica che mi stava travolgendo: era un tango. Ora il fumo che usciva dalla mia bocca sembrava creare figure danzanti nell’aria che si muovevano a ritmo di musica, oscillavano nel vento, e si perdevano, si ritrovavano. Ballavano.

Allora la mia anima confusa e il mio corpo stanco sentivano il bisogno di muoversi, di andare, di provare a cambiare.

“Buonasera! Desidera…?”

Cosa desideravo? In quel momento non seppi rispondere subito. Non sapevo bene se desiderassi più tornare indietro nel tempo e rivivere la mia vita daccapo oppure guardare, ballare, conoscere, cambiare.

“Vuole fare lezione? È una lezione dimostrativa, è gratuita!”

Non udii le parole di quel ragazzo biondo che sembrarono rimbombare in un atmosfera nebbiosa.

“Venga prego, le faccio strada”

Con un fare cortese mi accompagnò sottobraccio fino alla sala. Ogni tanto mi sorrideva e accennava dei “Venga, prego”. Io non riuscivo ancora a comprendere il motivo per il quale mi trovassi in quel luogo. Non avevo mai ballato in vita mia, non conoscevo la musica né tanto meno i passi, avevo solo voglia di provarci.

La porta della sala da ballo era semiaperta. Il ragazzo mi lasciò lì fuori, sola. E se ne andò accennando un saluto con la mano.

Dovevo decidere, e decisi bene: decisi di spingere quella porta ed entrare.

Quando fui nella sala tutto risultò più chiaro. Fui accolta dall’insegnante, una donna giovane, pratica, con un caschetto corto nero, che si presentò con un’energica stretta di mano.

“Piacere Ada! È la prima volta che balla signora? Prego vada con le altre donne sulla sinistra, e provi a seguire i passi!”

La lezione fu molto piacevole, l’ambiente cordiale. Feci subito amicizia e mi fu assegnato Armando come compagno. Ci fecero semplicemente camminare in avanti, indietro, di lato, a volte a occhi chiusi: dovevo fidarmi di lui e riuscire a seguirlo.

Armando fu il mio compagno fisso per tutto il corso: un signore distinto, abbastanza alto, insegnante di lettere in pensione, che mi raccontò di essere rimasto solo con un’unica figlia che lo andava a trovare ogni tanto e di aver deciso di coltivare la passione che aveva sempre nutrito per il tango. Con Armando nacque una bella amicizia, oltre all’intesa di coppia nel ballo. Ormai non eravamo più soli e così spesso andavamo a cena insieme, al cinema, ai musei, alle gallerie d’arte, a teatro.

Nel frattempo le lezioni continuavano e cominciavamo a diventare molto bravi: ci allenavamo con Ada in palestra, spesso a casa, e qualche volta andavamo a ballare con gli altri compagni di corso.

Frequentavamo un seminterrato, un locale suggestivo dove si ballava esclusivamente tango argentino. Una sala tonda e spaziosa, che sulle pareti alternava specchi a quadri neosurrealisti. Una sera il gestore del locale venne da me ed Armando per parlaci.

“Salve, volevo invitarvi alla competizione che stiamo organizzando…” e ci diede un volantino. “Ho visto che siete ad un livello avanzato, mi piacerebbe se partecipaste. È una competizione amatoriale, l’iscrizione è gratuita e il primo posto verrà premiato con una coppa. Dovete semplicemente iscrivervi. Pensateci.”

Io e Armando ci guardammo e un sorriso di complicità comparve sul nostro volto.

“Proviamoci!”

La sera della competizione eravamo agitatissimi: non facevamo che aggiustarci il vestito e i capelli; tutto ci sembrava inadeguato, noi ci sembravamo inadeguati. In ogni caso eravamo lì solo per divertirci, non volevamo vincere, ma in ogni caso eravamo imbarazzati dal fatto che dovevamo competere con tutti quei ballerini di livello avanzato.

A gareggiare c’erano 25 coppie e con il primo giro ne venivano eliminate 10. Pensavamo che probabilmente avremmo ballato per un giro solo, al massimo due se fossimo stati fortunati.

Invece non fu così: la coppia numero 3, la nostra, rimase in gara per i primi tre giri e andò in finale insieme alla coppia numero 12 e alla coppia numero 21. L’agitazione andava aumentando, ma cresceva anche la soddisfazione nonché la felicità del nostro già incredibile traguardo.

Il tango finale da ballare fu un Libertango.

Appena partì la musica tutto il resto sembrò non esistere più. Eravamo soli: io, Armando, la pista, la musica e l’improvvisazione. Mentre la musica di Astor Piazzola si suonava, i nostri passi si ballavano.

Eravamo entrati in un mondo diverso, rosso, nero, veloce poi lento, volteggiante, nostro.

E in quel vortice di passi e colori, cominciavo a risentirmi donna, cominciavo a credere in me, nella mia vita, nella mia persona, una sensazione nuova, mai provata prima: ero cambiata, avevo capito l’importanza dei sentimenti, delle passioni, e soprattutto delle persone a cui vogliamo bene.

Con quel Libertango nacqui per la seconda volta.

Arrivammo terzi, ma la nostra gioia era talmente tanta che ci sembrava di aver vinto la competizione.

Grazie al ballo avevamo cambiato la nostra vita, ci eravamo sollevati da uno stato di apatia, depressione, e avevamo capito che le delusioni come le vittorie non hanno età e che la vita può essere vissuta a pieno in una sorta di seconda gioventù: la vecchiaia.

Cara lettrice, io sono stata aiutata dal Tango e dal Fato che mi ha fatto incontrare la persona giusta. Ora voglio essere io il tuo Fato per poterti riportare alla vita: vorresti condividere lo strabiliante quanto semplice sentimento, che è l’amicizia, con me?

Isabella Leone

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