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Alchimia e profezia nel pavimento del Duomo di Siena

Castissimum Virginis Templum caste memento ingredi”: ricordati di entrare castamente nel castissimo Tempio della Vergine.

Ma subito sopra questo monito, si apre maestosa, in un commesso marmoreo policromo, la tarsia raffigurante Ermete Trismegisto.

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Che ci fa dunque il fondatore dell’alchimia in un tempio cristiano?

Su un fondo nero e tappeto rosso, figure e iscrizioni bianche, si individua con attributi oro sul risvolto del cappello e colletto, questo personaggio leggendario dell’età pre-classica, che compie il matrimonio mistico tra Sole e Luna e che è il novello Horus dell’antico Egitto, ovvero è Thot, Hermes Mercurius Trismegisto, padre dell’alchimia e dell’ermetismo, che proprio da lui prende il nome.

Siamo nel Duomo di Siena e un’iscrizione incisa a destra del personaggio rende Ermete colui che ha intuito il mistero fondamentale del Cristianesimo, ovvero la nascita del Figlio dal Padre.

Non finisce qui.

Le navate laterali sono decorate con dieci Sibille, cinque per ciascuna.

Le Sibille sono figure femminili appartenenti al mondo pagano, capaci di esprimere degli inappellabili vaticini e di predire il futuro non preordinato. I loro nomi derivano dai luoghi di pertinenza geografica; due sono africane: l’Eritrea e la Libica

Qui assumono la funzione di annunciatrici della profezia che attiene appunto all’avvento, la passione, morte e resurrezione del Figlio di Dio.

Ma il committente del pavimento “il più bello, grande e magnifico che mai fusse stato fatto”, per dirla alla Vasari, la dice lunga sul significato di tali presenze a dir poco pagane.

Lui era messere Alberto Alberighi, nobile senese, Cavaliere di Malta e di Rodi, Commendatore della Magione di San Pietro e Camollìa, Rettore dell’Opera del Duomo fra il 1481 e il 1488 e poi di nuovo nel 1505, che ebbe contratti con il grande filosofo Marsilio Ficino e fu frequentatore dell’Accademia Neoplatonica Fiorentina da questi fondata.

Marsilio Ficino qualche decennio prima aveva ricevuto incarico da Cosimo il Vecchio de’ Medici di tradurre dei misteriosi manoscritti; quei manoscritti erano stati rinvenuti nei pressi di Costantinopoli dal monaco Leonardo da Pistoia e parlavano di alchimia

Siamo in pieno Rinascimento fiorentino e tutti gli uomini colti studiavano e parlavano di alchimia; volevano conquistare l’onniscienza, raggiungere il massimo della conoscenza in tutti i campi del sapere; creare la panacea universale per curare le malattie, generare e prolungare indefinitamente la vita; la trasmutazione delle sostanze e dei metalli, ovvero la ricerca della pietra filosofale.

Addentrandoci come esploratori del sapere nel Duomo di Siena e volendo percorrerlo in altra chiave, quasi come dei Dan Brown nel Codice da Vinci, ogni cosa assume un significato diverso da quello strettamente apparente.

La stessa forma della cattedrale – una croce latina – appare, vista dall’alto come un uomo gigantesco, cosmico, con le braccia aperte che sembra idealmente abbracciare i quattro punti dell’universo.

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Simboleggia certamente il Cristo morto, ma Cristo è risorto, è cioè l’umano che si è trasformato in Dio, il piombo che si trasforma in oro, metallo incorruttibile, simbolo di vita immortale e di risurrezione, perché appunto, il suo colore ricorda proprio il sole che rinasce.

Il Duomo di Siena è infatti astronomicamente orientato: i piedi della croce sono a ovest, il punto in cui tramonta il sole, in cui simbolicamente muore, mentre l’apice della croce è a est, dove sorge.

La cattedrale è gotica e ha tre porte che simbolicamente riportano ai tre sacramenti cardine della religione cristiana: battesimo, cresima e comunione, i tre gradi fondamentali dell’iniziazione cristiana, la cui funzione è quella di aprire la coscienza, l’influenza della luce, della Sapienza eterna, di cui la cattedrale diviene simbolicamente la dimora.

Entrando dalla porta di sinistra, quella legata al Battesimo, ci si imbatte nella Sibilla libica e questa rappresenta il primo indizio, perché non è la prima secondo l’ordine canonico. C’è dunque un altro criterio, un’altra chiave di lettura.

Tutte le Sibille rappresentate nella decorazione pavimentale sono di carnagione bianca, incluso l’Eritrea; eccezione fa proprio la Libica, che ci appare di carnagione scura, nera cioè come la notte ed è posta là dove il sole tramonta; non è dunque nera per l’appartenenza territoriale.

Sibilla Libica

Indossa una corona fatta di fiori e mostra la tabella con la sua profezia: “Verrà fra mani ingiuste, mani impure daranno frustate a Dio, miserabile e ignominioso, infonderà speranza al misero”.

La tabella con all’interno la profezia è sorretta da due serpenti o draghi che, in atteggiamento minaccioso ed aggressivo, sembrano stringere – e con l’intento di soffocare – una nuova pianta che ha tre boccioli e una forma che ricorda la croce: è il tentativo di reprimere l’avvento di Cristo.

Quindi, il primo responso sibillino è dato dalla Sibilla nera, mentre gli altri sono dati dalle Sibille bianche….

Nero e bianco, nigredo e albedo…

Procedendo verso il centro della navata centrale, prima cioè di entrare nel transetto, ci si imbatte in una strana tarsia.

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Su un tappeto di marmi rosseggianti, una ruota che gira in senso orario è sormontata da un re con scettro e sfera, assiso su di un trono; intorno ad essa, in varie posizioni corrispondenti agli altri tre punti cardinali, si aggrappano tre uomini con i capelli e le vesti svolazzanti al vento. Agli angoli, all’interno di esagoni mistilinei, quattro filosofi dell’antichità: Epitteto, Aristotele, Euripide e Seneca, ciascuno dei quali mostra un cartiglio ove si leggono sentenze sul disprezzo delle ricchezze.

Il tappeto di marmi rosseggianti è il rosso della rubedo!

Al medesimo messaggio conduce anche la tarsia realizzata tra il 1505 e 1506 dal Pinturicchio.

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La personificazione della Fortuna, una nuda fanciulla che tiene con una mano la cornucopia e con l’altra una vela gonfiata dal vento, ha un equilibrio instabile, perché un piede poggia su una sfera e l’altro è su un’ingovernabile barca il cui albero maestro è spezzato. La Fortuna è riuscita, dopo un viaggio tempestoso, a far approdare su di un’isola rocciosa alcuni saggi, i quali percorrono un sentiero in salita pieno di insidie. Sulla vetta del monte che i saggi cercano di raggiungere, è seduta però, su una stabile pietra posta in un prato fiorito, la Sapienza o Virtù che offre un libro al filosofo tebano, che si libera di ogni beneficio materiale, e dona una palma a Socrate, il più luminoso dei filosofi.

Il messaggio dell’allegoria è fin troppo chiaro: il percorso verso la Sapienza è arduo, ma una volta superate le difficili prove, si consegue la serenità. La stessa identificazione tra Virtù e Sapienza è esplicativa, perché la Virtù si raggiunge grazie alla Sapienza e la Sapienza è Virtù

Il percorso in questo pavimento è difficile, complesso e pieno di dubbi. Si percorre il “corpus ermeticus”, attraversando le tre fasi dell’Opus alchemicum: si è passati dal messaggio della Sibilla Libica, dal volto nero come la notte, alla lettura dei messaggi delle altre Sibille, bianche come è l’albedo, per giungere alla tarsia del re sul trono giacente su un tappeto rosso.

È qui che bisogna alzare gli occhi, dopo aver capito “quant’è dura la salita” (Gianni Morandi docet!) e guardare di fronte: si verrà abbagliati dal Delta fiammeggiante del catino absidale.

È la luce di Cristo che, superate le difficili prove, dona la serenità. È la pietra filosofale che ogni alchimista si pone come obiettivo.

È il percorso arduo per la ricerca della felicità!

Anna Maria

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