17 marzo 2021, 160° anniversario dell’Unità d’Italia ed il pensiero corre al Vittoriano.
È forse il monumento più conosciuto e fotografato a Roma, dopo il Colosseo e San Pietro.
Fu inaugurato nel 1911 per celebrare i cinquant’anni dell’Unità d’Italia.
Monumento simbolo delle vicende risorgimentali e dell’unità nazionale, fu scelto nel 1921, per contenere la tomba del Milite Ignoto, come emblema del sacrificio per la patria e dei suoi ideali, divenendo quindi anche Altare della Patria.
L’impossibilità di identificare il soldato sepolto, lo rende un simbolo molto forte.
La scelta del milite toccò a una madre che, perduto il figlio in guerra senza che le potesse essere restituito il corpo, fu chiamata a scegliere tra undici bare, quella che emotivamente sentisse contenere i resti del proprio figlio.
Traslata in treno da Aquileia a Roma ebbe, durante il viaggio, un tripudio di onorificenze: ad ogni stazione il treno rallentava per ricevere un saluto simbolico, rivolto a quel soldato caduto in quella guerra che aveva colpito tutti in maniera diretta o indiretta.
Una guerra quindi non passata alla storia per merito di comandanti o generali ma per il valore dei nostri bisnonni, semplici fanti sbattuti in trincea lontani da casa e in terre fino ad allora sconosciute: erano, per lo più, contadini abituati a piegare le spalle, all’ubbidienza e al dovere.
Un film rappresentativo di questo evento è sicuramente “La Grande Guerra” di Monicelli, con Sordi e Gassman, che nel 1959 vinse il Leone d’Oro a Venezia, a cui va riconosciuto il pregio di non fa parte del filone antimilitaristico (come ad esempio “Orizzonti di gloria” di Kubrick), ma di porre l’accento sulle vicende dei semplici soldati e sulla popolazione civile inerme che venne toccata per la prima volta dalla guerra. Per questo è ancora oggi oggetto di studio nelle scuole di cinema.
Oggi non ci sono più testimonianze dirette, ma solo vecchi tracciati delle trincee, cimeli e lettere dal fronte che, per la stragrande maggioranza, venivano scritte – e lette – dalle poche persone alfabetizzate alle quali toccava anche l’ingrato compito di comunicare le cattive notizie.
L’intervento italiano nel primo conflitto mondiale, 10 mesi dopo l’inizio, fu voluto da quella minoranza interventista convinta che sarebbe stato di breve respiro; furono invece tre lunghi anni di trincea, fango e logoramento.
Dal 1915 al 1917 ben 11 battaglie combattute sul fronte orientale del fiume Isonzo non portarono alcun vantaggio. Solo assalti senza senso voluti ciecamente dai vertici militari che consideravano i nostri fanti solo semplici numeri.
Alla dodicesima battaglia, la disfatta di Caporetto, nel novembre 1917, quello che rimase dell’Esercito ripiegò affannosamente in ritirata sul fiume Piave e lì, con il risveglio nazionale, anche grazie ai “Ragazzi del 1899”, diventati da difensivi ad attaccanti, si riuscì con le battaglie del Monte Grappa e Vittorio Veneto a respingere gli Austriaci, oramai logori, e a conquistare finalmente Trento e Trieste.
Una guerra vinta, costata 650.000 morti più altrettanti feriti e dispersi.
Questo centosessantesimo anniversario dovrebbe servire a tutti noi che transitiamo sbadatamente a Piazza Venezia: il Vittoriano, monumento simbolo dell’Unità d’Italia, fu scelto per commemorare i fanti che nelle loro trincee con i loro dialetti così diversi, si stringevano nell’amicizia e iniziavano a riconoscersi per la prima volta in un DNA del sentimento di Nazione Italia.
Fabio Salvati