Non sapeva parlare l’italiano, Angelo Brunetti, ma la dialettica faceva parte di lui, quella romanesca, quella verace, schietta e sincera.
Ma Angelo Brunetti ai Romani dice poco, perché nella Roma della Repubblica Romana tutti lo conoscevano come Ciceruacchio.
Il soprannome “ciceruacchio”, gli fu dato dalla madre da bambino ed è l’amorevole personalizzazione del termine romanesco “ciruacchiotto”, ovvero grassottello.
Nato a Roma, nel rione Campo Marzio, da un maniscalco crebbe svolgendo il mestiere di carrettiere nel porto di Ripetta, trasportando vino dai Castelli romani. Parlando, parlando l’attività gli andò bene tanto che riuscì ad aprirsi una taverna tutta sua nei pressi di Porta del Popolo. Brillante e socievole, era beneamato dal popolo romano, che a sua volta amava: si prodigò anima e corpo per i suoi concittadini durante l’epidemia di colera del 1837.
L’umile estrazione e l’attività lavorativa sin dalla tenera età non gli consentirono di coltivare le sue innate capacità con l’istruzione, ma ciò non gli impedì di diventare un capopopolo, un rappresentante informale dei sentimenti popolari.
Questa sua caratteristica emerse appieno con l’avvento al soglio pontificio di Papa Pio IX, al secolo Giovanni Maria Mastai Ferretti, nel 1846. Ciceruacchio si fece infatti portavoce dell’ansia popolare per il ritardo delle tanto attese e promesse riforme annunciate dal nuovo pontefice. Nel luglio del 1846, in una manifestazione di popolo, ringraziò pubblicamente il Papa per aver concesso la libertà ai prigionieri politici, donando alla popolazione alcune botticelle di vino ed accendendo un grande fuoco vicino a Porta del Popolo. Nella primavera e nell’estate dell’anno successivo, il Brunetti fu il diretto organizzatore di manifestazioni popolari finalizzate ad incitare il Papa nel continuare nel suo piano di riforme politiche che prevedevano anche l’apertura del Ghetto, in cui erano rinchiusi gli Ebrei dal tramonto all’alba sin dal 1555; il 17 aprile 1848, sera della Pasqua ebraica, si unì alla demolizione dei portoni.
Tanto era il fervore per questo Papa, moderno e liberare, che Ciceruacchio volle farsi ricamare sulla giacchetta rossa la scritta “Viva Pio IX” (ancora oggi conservata nel Museo del Risorgimento).
Ma la politica liberare di Pio IX durò poco: il pontefice si rimise al volere della Curia e con l’allocuzione del 29 aprile 1848 voltò le spalle al popolo romano e fuggì. Ciceruacchio, deluso dal voltafaccia del papa, abbracciò definitivamente la causa mazziniana e aderì alla Repubblica Romana, partecipando attivamente ai combattimenti contro i Francesi chiamati da Pio IX per rientrare in possesso del suo trono.
Si affiancò a Garibaldi, dopo la capitolazione del sogno romano caduto sotto la frode francese, per raggiungere Mazzini a Venezia che ancora resisteva agli Austriaci. Ma in prossimità del delta del Po, fu intercettato e quindi fu costretto allo sbarco insieme ai suoi, tra cui i figli Luigi e Lorenzo (di appena 13 anni) ed un sacerdote. Confidò, il capopopolo, nell’aiuto di alcuni abitanti, che invece li denunciarono alle autorità. Ciceruacchio fu così arrestato e condannato senza processo. Chiese che almeno il piccolo Lorenzo fosse risparmiato: era il 10 agosto del 1849 ed era il suo onomastico. Ma gli Austriaci vollero ferirlo oltre la morte: i suoi figli furono uccisi sotto i suoi occhi e come padre dovette subire quell’ulteriore tormento prima di morire.
Questa tragica fine è immortalata sul Gianicolo: una statua a lui dedicata, posta nel 2011 in occasione del centocinquantenario dell’Unità d’Italia su quel colle che per volere del deputato Giuseppe Garibaldi è diventato il simbolo della nostra unità.
Anna Maria
Visita guidata tematica: Il Gianicolo, amori e battaglie della Repubblica Romana