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L’Isola Tiberina e la “pulzella” innamorata

Due leggende raccontano l’Isola Tiberina.

La prima vuole che l’isola si sia formata nel 510 a.C. dai covoni del grano mietuto in Campo Marzio, di proprietà del re Tarquinio il Superbo, al momento della rivolta. La quantità era tale che i covoni, ammassandosi l’uno sull’altro, formarono la massicciata che fu il primo nucleo dell’isola.

L’altra leggenda, forse anche più famosa della prima, racconta di una nave che, nel 291 a.C., essendo scoppiata a Roma una grave epidemia, salpò verso Epidauro, città sacra ad Esculapio, il più importante dio guaritore della Grecia, con una commissione di dotti romani per chiedere al nume della medicina il suo soccorso. Ma, mentre si svolgevano i riti propiziatori, un serpente enorme uscì dal tempio e andò a rifugiarsi sulla nave romana. Certi che Esculapio si fosse trasformato in serpente, la nave si affrettò a ritornare a Roma. Giunta, il serpente scese nel fiume e nuotò fino all’isola Tiberina, dove scomparve, indicando, in tal modo, la località dove sarebbe dovuto sorgere il tempio: la costruzione, iniziata subito dopo, venne inaugurata nel 289.

L’isola venne monumentalizzata in opera quadrata solo a metà del I sec. a.C., parallelamente alla costruzione dei due ponti e del Vicus Censorius che li collegava al suo interno: si riprendeva la forma di una nave, di cui oggi è ancora visibile la prua, con blocchi di travertino che rivestono l’interno in peperino e alcune decorazioni raffiguranti Esculapio con il suo serpente e una testa di toro, forse utile per gli ormeggi. Al centro vi era un obelisco, a rappresentare un albero maestro simbolico.

Certo, l’origine così tarda dell’isola Tiberina sembra difficilmente sostenibile e ampiamente smentita dalle indagini svolte in occasione dei grandi lavori per la sistemazione del Tevere, ma sempre affascinante e cara alla memoria dei Romani.

Oggi su quell’antico tempio sorge la chiesa di San Bartolomeo all’Isola, costruita nel 998 dall’imperatore tedesco Ottone III che era venuto a Roma per veder da qui sorgere l’anno Mille.

Davanti la chiesa, al posto dell’antico obelisco, è innalzata una “guglia” di marmo, sormontata da una cuspide su cui spicca una croce. Il monumento è soprannominato dai Romani “la colonna infame”, perché il 24 agosto, giorno della festa di San Bartolomeo, vi si affiggeva una tabella con i nomi dei “banditi” che non si erano comunicati a Pasqua.

Legata a quel giorno di festa, c’era sull’isola anche un’altra tradizione: la “Sagra dei cocomeri”, che vedeva la piazzetta ingombra di bancarelle. Alcuni cocomeri venivano lanciati nel fiume, omaggio per chi si tuffava e riusciva a recuperarli, ma il gioco, troppo pericoloso per la corrente e le ruote dei mulini, venne proibito intorno alla metà dell’Ottocento.

L’isola è collegata alla “terra ferma” da due ponti: Ponte Cestio e Ponte Fabricio, noto anche come “ponte Quattro Capi”, o Pons Judaeorum. È uno dei ponti più iconici di Roma, anche perché è il ponte più antico della capitale a conservarsi ancora nella sua conformazione originaria.

Nelle quattro arcate si trovano altrettante iscrizioni che ne attestano la costruzione da parte di Lucio Fabricio, un curatore delle strade, nel 62 a.C. Il nome del costruttore è ripetuto ben quattro volte nelle ghiere degli archi del ponte, mentre nell’arcata di piena del pilone centrale è inciso “idemqueprobavit”, che vuol dire “egli stesso lo approvò”.

Simbolo della cultura romanesca, una delle erme del ponte Fabricio è raffigurata nel vicino monumento dedicato a Giuseppe Gioacchino Belli, a Trastevere, con il poeta appoggiato al parapetto del ponte.

Leggenda vuole che i “quattro capi” siano le teste mozzate di quattro architetti incaricati da Sisto V del restauro del ponte e che, anziché svolgere velocemente l’incarico, non fecero altro che litigare tanto da costringere il “papa tosto” a tagliar loro le teste, per tacitarli

Ma la più affascinante delle leggende è quella della “pulzella” innamorata. Correva l’anno 1350 e una giovane nobile romana fu rinchiusa nella Torre Caetani per aver rifiutato un matrimonio combinato con un uomo molto più anziano.

La ragazza avrebbe speso la sua intera vita a guardare il mondo dalla finestra, aspettando di veder tornare il suo amato sano e salvo dalla guerra, senza rendersi conto del tempo che passava. E così, sarebbe rimasta lì, “impietrita” dall’eterna attesa di un ritorno mai avvenuto.

Passeggiando su Ponte Fabricio, tra venditori ambulanti e turisti intenti a fotografare il “Cuppolone”, c’è un dettaglio che non salta subito all’occhio: tra le file ben ordinate di mattoni che innalzano la torre verso il cielo c’è una piccola nicchia che ospita una testa femminile in marmo.

È la Pulzella innamorata che da quel dì attende il ritorno del suo amato!

Certo quell’enigmatico volto scolpito nel marmo con lo sguardo rivolto verso il ponte è di epoca romana, databile al I secolo d.C., ma poca importa questo dettaglio: la storia, si sa, è fatta di storie. Se poi le storie sono ammantate di leggenda e farcite di dettagli fantasiosi, ben venga: l’intrigo e il mistero sono il miglior collante alla memoria!

Anna Maria

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