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La storia del cognome: di che Gens sei?

La celebre locuzione latina nomen omen, cioè il nome è un presagio, è frutto dell’antica teoria circa il carattere non arbitrario del linguaggio. I cognomi oggi ci appaiono casuali e privi di significato solo perché non v’è più corrispondenza tra come ci si chiama e quel che si è: pensiamo all’attore Ettore Bassi che ci guarda dai suoi 180 cm di altezza!

Ma quando fu introdotto l’uso del cognome?

La storia di Roma – e Roma è la caput mundi – ci parla alle origini di un solo nome: Romolo e Remo, discendenti di Enea, nipoti del re Numitore spodestato da suo fratello Amulio.

Ma già il secondo re di Roma, Numa Pompilio, ha un nome e un cognome. Poi l’abitudine di chiamare i propri figli con i nomi dei padri ha reso necessaria una nota distintiva. Così in età repubblicana viene introdotto un terzo elemento

Un cittadino romano aveva dunque un praenomen (cioè il nome personale, per esempio Caio), un nomen (cioè l’indicazione della gens, la famiglia di provenienza, quindi Giulio da Gens Julia) e quindi un cognomen, cioè un soprannome (come Cesare, perché il primo così chiamato venne alla luce in seguito a un taglio cesareo: ‘tagliare’ in latino è caedo che al supino fa caesus).

Questo ci viene narrato da Elio Sparziano nella sua Historia Augusta (IV sec. d.c.): «Le congetture cui ha dato luogo il nome di Cesare, l’unico di cui il principe del quale racconto la vita si sia mai fregiato, mi sembrano degne di essere riferite. Secondo l’opinione dei più dotti e informati, la parola deriva dal fatto che il primo dei Cesari, per darlo a luce, fu necessario sottoporre la madre, che era morta prima di partorire, a un’operazione di parto cesareo…»

Ma perché, allora, i cognomi romani non sono giunti fino a noi? Purtroppo, con la caduta dell’Impero i registri ufficiali creati dai governi degli imperatori romani andarono distrutti o perduti. E per molti anni, in seguito all’imbarbarimento e al cambiamento della società, non si sentì più il bisogno né di cognomi né, ovviamente, dei registri.

Successivamente, in Europa, precisamente tra il X e l’XI secolo, gli abitanti aumentarono di numero e, per distinguere le persone e per facilitare e rendere sicuri gli atti pubblici, per esempio le compravendite, diventò sempre più comune l’uso di un cognome.

L’uso del cognome fu reso obbligatorio in Italia nel 1564, quando il Concilio di Trento stabilì che i parroci dovessero tenere un registro con nome e cognome di tutti i bambini battezzati.

Ma se per i Romani, già avvezzi all’uso articolato di un nome, fu facile la creazione di un identificativo, magari indicando una certa caratteristica fisica, oppure dalla zona di provenienza (come Leonardo: dal paese di Vinci), dal lavoro svolto (Tintori, Bovari …) o dalla patronimia (cioè il nome del padre: per esempio Iohannes filius Arnaldi diventerà Giovanni Arnaldi), vere difficoltà identificative furono incontrate dagli Ebrei, già rinchiusi nel Ghetto dal 1555.

Gli Ebrei, intesi come popolo, infatti, non avevano il cognome. Si distinguevano tra loro con il patronimico, oppure con la località di provenienza o la tribù di cui storicamente si ritenevano appartenenti. Ad esempio Gesù per gli Ebrei del suo tempo, era Yoshua ben Yoseph di Nazareth della tribù di Giuda.

Quando, nel corso del Medioevo, divenne abitudine identificarsi sempre più spesso con il cognome, gli Ebrei mantennero le loro consuetudini.

Ma quando con la bolla Cum nimis absurdum Papa Paolo IV Carafa istituì il Ghetto, chiudendo nel serraglio tutti gli Ebrei che vivevano a Roma, la popolazione ebraica nel Ghetto arrivava a circa 7000 persone. Erano tantì, sì, ma non abbastanza per non fare matrimoni tra parenti. Nell’antichità ci si sposava anche tra cugini di primo grado e quando le donne si maritavano lasciavano la “scola del padre” per prendere quella del marito: ciò significava che una donna di origine sefardita poteva avere benissimo un cognome ebraico romano.

Dietro ogni cognome c’era una storia legata alla propria vita, quindi: “Della Seta”, “Funaro”, “Coen (Sacerdoti)” e “Orefice” indicano i mestieri delle persone a cui appartenevano; i “Zarfati”, invece, erano chiamati così per via della loro origine geografica, la Francia. Ma altri ancora, come i “Sermoneta”, avevano il cognome della città dove vivevano prima che il Papa obbligasse gli Ebrei ad andare nel Ghetto di Roma o di Ancona.

Stando allo storico Michele Luzzati, la formazione dei cognomi degli Ebrei italiani segue principalmente il processo di formazione standard dei cognomi italiani, senza particolari specificità, anche per il numero talmente alto di persone, avvenimenti e varianti, che è praticamente obbligatoria la generalizzazione e semplificazione.

Tuttavia, forse proprio per non disperdere le tradizioni, a Firenze nel 1925 l’ebreo Samuele Schaerf pubblicò per la casa editrice Israel “I cognomi degli Ebrei in Italia”. Il suo intento era quello di celebrare il contributo dato dagli Ebrei al Risorgimento e alla Prima Guerra Mondiale, ma di lì a poco il volumetto si trasformò in un vero e proprio boomerang. Nel giro di pochissimi anni, il significato originario di quell’elenco di cognomi venne completamente stravolto e assunse il valore di una vera e propria lista di proscrizione, dando la certezza che esistesse un patrimonio antropominico esclusivamente ebraico, tant’è che fu varata la legge del luglio 1939 che espose gli ebrei italiani a una gogna spregevole, creando una sorta di ghetto onomastico. Oltre a una clausola limitativa in materia testamentaria, la legge ordinava “ai cittadini italiani appartenenti alla razza ebraica […] che avessero mutato il proprio cognome in altro che non riveli l’origine ebraica, di riprendere l’originario cognome ebraico”.

Il racconto di questa vicenda apre il saggio “Per la storia dei cognomi ebraici di formazione italiana” dello storico Michele Luzzati, già direttore del Centro interdipartimentale di studi ebraici dell’Università di Pisa, che spiega come di particolare gravità fu il fatto che il riferimento alla religione venne trasformato nel riferimento ad una presunta ‘razza’.

Pur nella difficoltà di trattare un tema “delicato” come quello dei cognomi ebraici, il saggio di Michele Luzzati fa il punto sugli studi in materia e sui miti da sfatare intorno alla questione. Come ad esempio l’idea che i cognomi ebraici siano “parlanti”, cioè che dal cognome si possa in effetti risalire all’ebraicità degli individui.

Nella società odierna – conclude Luzzati – sono ormai pochissimi i cognomi effettivamente ‘parlanti’, cioè in grado di ‘raccontare’, di primo acchito, non solo frammenti della storia più o meno remota della famiglia a cui un individuo appartiene, ma anche qualche connotato del suo presente. E questo è sicuramente vero anche per coloro che professano la religione ebraica. Relativamente ai cognomi in uso tanto fra gli ebrei quanto fra i cristiani, basterà far riferimento a ‘Rossi’. Si tratta di un tipico cognome ebraico. È ovvio che non possiamo da qui inferire che le molte centinaia di migliaia di italiani che portano il cognome Rossi siano tutti ebrei o di origine ebraica“.

Per concludere, una breve nota sulla corrispondenza fra nome di luogo e ebraismo, ricordiamo una scena toccante del film di Luigi Comencini “Tutti a casa” (1960), ambientato dopo l’8 settembre 1943, quando un soldato tedesco che esamina sospettoso i documenti dell’ebrea Silvia Modena, mentre i compagni della ragazza che cercano di proteggerla fingendo di ignorare l’esistenza di una città con quel nome. Nello stereotipo c’è ovviamente una parte di verità.

Fin dal Duecento gli Ebrei gestivano il prestito al minuto, stabilendosi così in centri abitati, grandi e piccoli. Data la ristrettezza del patrimonio ebraico di nomi di persona, quando nel corso dei secoli si rese necessario avere dei cognomi, venne naturale assumere quelli dei luoghi di residenza.

Fortunatamente, l’elevato numero dei cognomi italiani, ben oltre trecentomila, è in parte l’effetto della complessità di vicende politiche, culturali e dialettali, ma anche di mescolanza tra quei cittadini che, pur professando religioni diverse, condividono la stessa storia e la stessa Patria da oltre due millenni.

Mai più, quindi, un nome visto come marchio infamante, una specie di sostituto della stella gialla di David reintrodotta dal nazismo (stigma del deicidio e della lussuria, come aveva ribadito solennemente il Concilio Lateranense del 1215); mai più una crudele e funesta eterogenesi dei fini, di cui purtroppo è cosparsa la storia umana.

Oggi, parlare di cognomi puramente ebraici ha poco senso. Nel corso degli anni, decessi, matrimoni misti, conversioni e quant’altro ne hanno molto diluito la specificità.

La comunità ebraica italiana attualmente ammonta almeno a 38.000 abitanti, di cui la maggioranza nella sola città di Roma.

Moltissimi aspetti culturali italiani sono integrati nella tradizione ebraica nazionale e vice versa. Tanti modi di dire italiani, parole o ricette derivano dal mondo ebraico.

Si tratta di una convivenza molto lunga e profonda, iniziata nel lontano 161 a.C., che ha arricchito entrambe le culture, dando vita ad una comunità (quella ebraica italiana) veramente ricca ed unica nel suo genere.

Le due culture ed origini si intersecano al punto che scinderle può essere molto complesso. Non si parla di una cultura o di persone isolate, di un gruppo piccolo nel più grande gruppo che è l’Italia. È tutto un unico gruppo integrato, nel quale ci si influenza a vicenda convivendo.

Il mondo è bello perché è vario!

Anna Maria

Visita guidata tematica: Segreti e misteri del Ghetto ebraico

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