Quanto sei bella Roma con Calipso:
il tempo libero speso bene!

Cerca

Sol Invictus

Già da mesi la colonna di esploratori aveva superato la prima cataratta del Nilo dove giunse a bordo delle agili imbarcazioni fluviali che ne risalivano le placide correnti aiutate da terra da cavalli da traino. La spedizione, voluta dall’imperatore di Roma, stava avendo successo, anche se il suo obiettivo di raggiungere la remotissima e quasi mitica terra della tribù degli israeliti nel cuore dell’Africa appariva del tutto oscuro ai senatori che, ob torto collo, applaudivano comunque a tale lungimirante decisione in pubblico, proprio come Quirinus, il senatore più avverso a tale impresa che in privato tramava contro mentre in aula osannava l’imperatore.

Infatti, in terra di Gerusalemme, gli Ebrei non avevano una reale idea di reazione all’impero romano, seppur conservassero una forte indipendenza sul loro territorio aspro e dalle genti fiere e bellicose.

Quell’ultima tribù israelitica d’Africa era però, non solo considerata da Cesare preziosa – tanto da conoscere ed eventualmente fornirla di una rete di scambi commerciali di spezie e legnami pregiati da quei luoghi – ma c’era dell’altro che non avvertiva chiaramente ma desiderava scoprire mandando in esplorazione un piccolo e ben equipaggiato manipolo di legionari e di cartografi ellenici, di formazione euclidea, oltre le cataratte del Nilo e l’ex regno Tolemaico. Del resto i legionari più anziani erano ben consci che esplorare per aprire una rotta commerciale anche se remota era ben meglio che combattere all’arma bianca, specie come negli avvenimenti di pochi decenni prima nelle terribili e interminabili guerre civili che seppellirono la Repubblica Romana per dar vita all’impero, con scontri tra cesariani e pompeiani prima e ottaviani e i loro avversari Cleopatra e Marco Antonio poi. Difatti, scontrarsi con un guerriero gallo nudo o semiprotetto da armature leggere era spaventosamente orribile, figurarsi incrociare i gladi con un altro legionario totalmente corazzato e ottimamente addestrato cosa potesse voler dire nell’attimo prima dello scontro corpo a corpo anche per un soldato prossimo al congedo e di discendenza celtica come Italo.

I suoi avi infatti facevano parte di quella infinita moltitudine di schiavi giunti dalle Gallie conquistate da Giulio Cesare ai tempi del triumvirato in tutta Italia centro settentrionale. Una volta divenuti schiavi di qualche latifondista – o senatore latifondista, per meglio dire – l’unico anelito di libertà rimastogli era riunirsi in piccole famiglie o clan per continuare segretamente ad adorare gli ormai “sconfitti” e proibiti culti druidici e far sopravvivere alcune tradizioni celtiche oralmente. Infatti, sebbene Italo avesse tanto di nome, il suo aspetto lo indicava chiaramente ed inequivocabilmente come gallo: biondo e più alto di una spanna di ogni buon legionario italico o ispanico, con solo i capelli di una foggia da cittadino di Roma, ormai libero ed in servizio militare.

Certo, militare per rifuggire alla condizione servile e sempre meglio essere un militare in esplorazione e non in guerra.

Tutto sommato Italo poteva ringraziare la Madre Terra e il Cielo dove dimoravano i suoi antenati e lo spirito dei sacri boschi di querce, generatori di nuova energia.

E di energia e spirito ce ne volevano eccome in quelle marce estenuanti in terre lontane dai grandi centri abitati. Tuttavia la sua indole intelligente e curiosa e quel senso di libertà in quegli spazi selvaggi e sconfinati lo ringiovanivano di decenni trasmettendogli un umore tra lo spensierato, l’allegro e il gradevole.

Ne aveva viste e sopportate già troppe e quel suo ultimo incarico era l’ideale prima del congedo con il grado di centurione cittadino dell’impero.

Avrebbe voluto vivere a Lugundunum diceva sempre a Tito.

Lugundunum sarà la mia nuova e vecchia casa contemporaneamente, realmente sarà come trovare le mie radici e i miei antenati, finalmente. Chiedi anche tu una fattoria lassù in Gallia, ci saranno mucche e mogli dai larghi fianchi per noi.”

Sempre meglio della Pannonia umida e piovosa tutte le stagioni, proprio dove finirai a coltivare cavolo nero, un solo raccolto all’anno, bello mio

Sono sopravvissuto tutti questi anni, vivrò bene anche a cavolo nero e mogli magre; basta che mi diano almeno sette figli prima della mia ultima primavera; e tempo ne ho! Noi celti vivevamo 28 volte 12 primavere in media, prima che Cesare ad Alesia facesse prigioniero per il suo trionfo Vercingetorige, il nostro capo-guerra e quasi tutto il resto del nostro popolo”

Potevate fare la fine di Cartagine, ricoperti di sale. Meglio deportato che passato a fil di spada. In fin dei conti è parte del nostro lavoro per la maggior gloria dell’Impero. Non è ironico che proprio tu ora fai il lavoro sporco per Roma, che la ami e detesti tanto da voler tornare nella sacra terra dei tuoi avi? Almeno lì cresce ancora il grano. A me invece toccherà aprire una bottega di macellaio in una squallida Suburra dopo il congedo. L’unica cosa che ho imparato a fare è usare lame affilate!”

Spilorcio. Sei spilorcio! Ti ci vedo a manomettere le stadere per un tuo buon peso e maggiore incasso da spendere in lerci postriboli e vino rancido”

C’è sempre posto per te nella mia bottega dopo che la tua bella dal grosso seno e dai morbidi fianchi non ti avrà dato nessuna discendenza!

Entrambi sognavano e ridevano. In fin dei conti, ancora giovani e alla soglia dei quarant’anni con forse ancora un anno di mansioni al servizio dell’Imperatore per poi tornare civili.

Le miglia passavano così come i giorni, mappando e marciando attraverso cammini già battuti da tempi immemori fino a quando giunsero a destinazione nella terra della tribù Israelita, nell’attuale Etiopia.

Imporre sotto forma di una proposta irrinunciabile e conveniente gli accordi dell’imperatore fu semplice per i legati e diplomatici al seguito. Del resto a garanzia avevano preso in custodia Schanta, la figlia del rabbino capo e lasciato una guarnigione a presidio della spedizione commerciale. La via per il ritorno era così iniziata come i nuovi sogni di congedo per Italo.

Italo sognava ancora ma da quando aveva incontrato e preso in custodia Schanta, dato che per via del suo servizio a Gerusalemme potevano comprendersi, sognava diversamente. Lei, bellissima, pelle ebano e capelli rossi, gli parlava con modi gentili ma sfuggenti e misteriosi. In alcuni dei dialoghi che intraprendevano aveva notato minuzie nuove che gli davano ancora da pensare su se stesso, stupendosi a realizzare nuovi concetti affascinanti sullo Spirito, la Vita e la Natura del Cielo che nessun altro gli aveva mai stimolato.

Inoltre Schanta aveva pelle molto più scura e lineamenti più delicati delle donne di Geruasalemme. Quella diaspora di quella tribù quindi lo affascinava sotto molti aspetti e il suo particolare ruolo gli permetteva segretamente di prendersi cura di Schanta in quel difficile cammino verso la Palestina e Gerusalemme.

Fu così che quando arrivarono e lui venne congedato dalla legione, piuttosto che dividersi si unirono; del resto correvano voci che la spedizione era fallita. Pare che alla fine di un banchetto di agnello condito con una particolare sugna, nessuno dei romani si risvegliò. Così lui ormai civile e lei ancora ostaggi, prima che le voci arrivassero in alto, fuggirono entrambi apolidi verso Betlemme dove trovarono scampo in quei mesi tumultuosi. Lì nacque il primo dei loro figli. Lo chiamarono Jeese. Splendidi occhi verdi, capelli ricci e biondi, pelle scura con volto lentigginoso. Già neonato una meraviglia.

Iniziarono così una nuova vita lontano dai centri del potere.

Italo iniziò a darsi da fare come falegname tra le altre cose, Schanta ben presto, con il piccolo Jeese ancora che gli pendeva dalle vesti strattonandola per restare in piedi, cominciò a lavorare ad un telaio dove era molto esperta e paziente.

Jeese cresceva felice e radioso in mezzo ad una moltitudine di bambini e bambine festosi per i viottoli del centro abitato. I genitori, entrambi innamoratissimi e molto credenti nelle varie e multiformi manifestazioni del Divino, si resero conto che loro figlio riusciva a comunicare con gli animali e in una certa misura con le piante attraverso gli odori da esse emanati.

Tutto ciò divenne presto evidente a tutti e la meraviglia di quel capo biondo con folti ricci su un volto scuro dagli intensi occhi verdi era sulla bocca e nel cuore di tutti, i quali vedevano in lui e nella sua famiglia i segni del prodigio della vita e semi di speranza per un prossimo futuro.

Jeese e i suoi fratelli da bambini, amati e intelligenti, iniziarono a leggere dai testi sacri che la madre aveva conservato e ad ascoltare miti e tradizioni ma non solo dal padre.

Crescendo, la spiritualità di Jeese cresceva insieme a lui, così come la sua curiosità per le religioni e i racconti dal lontano Oriente, portando ulteriore freschezza nella sua mente in modo tale da riuscire a rielaborarli per renderli comprensibili a tutti.

Da giovanotto iniziò a comprendere che non si muore del tutto ma che l’anima persiste oltre la morte sulla terra, senza ascendere ai cieli o quietarsi e riposarsi nei campi elisi come usavano dire a quei tempi nell’Impero.

Fu così che riuscì a placare le anime vaganti sulla terra. Infatti, al buio della notte, riusciva a scorgere dove quell’anima soffriva e, ascoltandola e poi pregandola, le dava sollievo e subito l’anima ascendeva, lasciando un odore agrumato, simile al cedro e bergamotto.

Coloro che osservavano la scena, pur non vedendo o ascoltando altro che lui, sentivano l’odore persistere per qualche secondo nell’aria, rimanendone estasiati e chiedendo di poterlo seguire in buon numero.

Fu così che si creò una prima comunità di nuovi credenti riformatori delle antiche leggi, senza sapere o voler esserlo in realtà. Lo facevano e basta.

Era la vita a volerlo e a compierlo per mezzo di loro stessi.

Iniziarono in molti, infatti, a curare alcuni mali dell’epoca come artriti, gonfiori, asma, turgori e altro tramite una corretta pratica fisica e spirituale e coloro che assistevano o guarivano volevano prontamente partecipare ad altri eventi di guarigione collettiva.

Avevano sbloccato dalla mente umana la cura per il male e, sebbene Jeese fosse il primo e il migliore, non rimase l’unico. Fratelli e sorelle si unirono a lui e agli altri.

Fu così che le autorità incominciarono a temerlo e osteggiarlo. Intanto il seguito cresceva e decisero, sotto Claudio, di andare in Italia.

Claudio diventò imperatore a 47 anni, nonostante la sua salute psicofisica e la sua inettitudine in politica. Non potendo fare altro, nella morsa dei senatori iniziò ad ingraziarsi il popolo con pane e giochi gladiatori, placando e solleticando gli istinti più bassi. Mise infatti in costruzione un nuovo anfiteatro (tra un sotterraneo scontento) sul luogo dove risiedeva uno stagno da prosciugare dove il popolo ancora riteneva ci fosse una sorgiva di acqua ed energia mite e curativa.

Nel frattempo Jeese i suoi familiari e i suoi più vicini amici intrapresero la traversata per mare che li condusse sulle coste dell’attuale Cassano ionico in Calabria. Qui Italo introdusse e corroborò le prime manifestazioni Divine del gruppo dell’ebreo nero, come veniva inizialmente chiamato il suo primogenito. Dopo averne conosciuto la storia, lo chiamarono il povero dei poveri ed il suo seguito, anche nel meridione della penisola Italica, che ironia della sorte prendeva il nome da un ancestrale re di quei luoghi anch’esso chiamato Italo, re dei Bruzi, ultimi oppositori della repubblica romana e alleati di Annibale.

I Bruzi erano un popolo particolarmente roccioso e indipendente che non vollero piegarsi a Roma fino alla loro ultima roccaforte. I secoli erano passati ma il cammino di Jeese, della sua famiglia e di tutti i loro fratelli e sorelle, si ampliava e quel sussulto di fraternità cresceva nei posti da loro raggiunti.

Tutt’ora alle pendici dell’Aspromonte, in un luogo del comune di Seminara, è conservata la statua lignea della Madonna dei poveri: una donna di colore con il suo bambino.

Altre rappresentazioni seguirono alla prima in quei luoghi come in tutto il mondo, come persino quella in Polonia. Questo avvenne molto dopo.

Nel frattempo le nostre genti impiegarono tre anni a risalire lo stivale e giungere fino alle suburra della Capitale dove, mescolatesi con i metropolitani, iniziarono, non senza ostacoli, a far parlare di loro tra gli schiavi e i cittadini della immensa Urbe di di marmo ma dalle strade lastricate di sterco, tanto era il flusso di animali da soma adibiti al trasporto di costose merci per i ricchi.

Dopo qualche tempo dall’arrivo in città, Italo, legionario in congedo, si ricongiunse ad altri ex combattenti dopo oltre vent’anni, tra i quali Tito .

Eccoti infine con la tua stadera dal buon peso, fratello mio. Sei invecchiato molto più di me come, ti dicevo ahahahahah!

Italooooo!!! Non credevo di poter vedere questo giorno, vecchio gallinaccio spelacchiato, ahahahahaah!

Insieme i due legionari dell’aquila prepararono il terreno per una più sicura permanenza dei nostri. Intanto la curiosità cresceva e le richieste di aiuto, comprensione ed affiliazione si moltiplicavano.

Giunsero fino alle orecchie prima e alla bocca poi di Ebano, la più giovane delle ancelle di Claudia, figlia dell’imperatore e della sua prima moglie, sempre turbata per il suo ruolo e dallo status quo della capitale di marmo e della corte dove viveva, sì ricca ma priva di quella luce che lei desiderava vedere e avere.

Mia dolce signora, cosa vi affanna? Siete così giovane e splendida!

Ebano sai bene che il mio destino è quello di fare il bene della mia Gens e non il mio. Non è questo che intendo come vita. Che senso ha una vita senza amore o senza averlo mai conosciuto?

Mi rattrista vedere il vostro sconforto! Fra testa e braccia c’è bisogno del cuore come raccordo, dice il nostro giovane maestro.

Di chi parli soave Ebano?

Presto le due nascostamente presero a parlare intensamente degli eventi sotterranei in suburra….

Passarono i mesi e gli anni. Italo venne riconosciuto sempre di più e ben presto gli ignavi, scontenti e invidiosi, iniziarono a tramare orrendamente contro di lui di sedizione e bestemmia contro gli dei al punto da farlo perseguitare. I pretoriani di corte giunsero in numero alla suburra presso la residenza di Jeese e della sua famiglia per tradurlo verso un luogo di prigionia ma prontamente degli ex legionari e i seguaci del povero dei poveri si frapposero in massa da ogni vicolo, angolo, cortile e uscio con lame e cicatrici ben evidenti ovunque sui corpi dei reduci, resi ancora una volta agili e frementi dal fermento creato dall’arrivo delle fresche e quasi imberbi truppe imperiali.

L’aria era tesa e già ci si cominciava a strattonare e pungolare all’arrivo di Italo.

Da ex centurione in congedo onorevole conosco il diritto e le leggi di Roma. L’imperatore dovrà concedere un confronto nell’arena con un suo campione prima di riempire d’infamia il nome dei miei antenati e discendenti! Riferitelo e tornerete, interi.

I giovani pretoriani tornarono impauriti e freddi ma marciando perfettamente in fila per due da dove erano venuti, ricordando l’unica cosa utile in quel frangente del loro rigido addestramento.

A correre ai ripari giunsero i consiglieri dell’imperatore: escogitarono un piano per il quale i poveri sarebbero stati costretti a mettere come campione Jeese, la cui armatura, scudo e gladio sarebbero stati posti sull’arena tra lui e il campione dell’imperatore, un famigerato barbaro di qualche landa del nord, massiccio e alto più di sei piedi, tremendamente equipaggiato di ascia, scudo tondo e armatura con gambali in quello che gli Aedi definivano scontro leale il giorno dell’inaugurazione del nuovo colossale anfiteatro, il 22 dicembre, dopo che fosse stato distribuito pane e vino per tutti .

La notte prima padre e figlio rimasero soli e mentre Italo passava in modo metodico senza sosta una pietra apposita su una lama da affilare, ricordava a Jeese – che fin da piccolo aveva addestrato alla lotta – di colpire come unica chance il barbaro al primo colpo e mortalmente.

La disputa ormai era tra due mondi: l’impero con il dio Marte e il Dio della Vita a proteggere Jeese e i suoi.

L’arena era gremita di popolani e imperiali e i loro soldati. Solo dopo molte tracotanti ovazioni imperiali a Claudio che da qualche tempo aveva ripudiato la figlia perché scomparsa da corte o addirittura – facevano trapelare i più maligni – seguace eretica dei poveri e condannata in contumacia a morte in nome dell’Impero. I due contendenti non potevano apparire più differenti: il barbaro agitava l’ascia e la batteva sullo scudo, mostrando i denti e sgranando gli occhi chiari, che ai Romani apparivano quasi bianchi tanto era esotico e lontano il suo aspetto. In un attimo di silenzio, dopo i proclami, urlò il suo nome “ULVER!”, facendo rimbombare nell’anfiteatro e nei suoi anfratti la struttura stessa, tanto era possente la sua voce.

Jeese invece guardò la sua famiglia e poi si voltò per osservare il suo avversario e valutarlo brevemente, calcolando la distanza frapposta tra lui il gladio ed esso e Ulver, concentrandosi intensamente fino all’inizio dello scontro fatale per uno dei due.

Quando il duello iniziò, dopo lo squillo all’unisono di molte trombe in bronzo, il barbaro con una furia innaturale correndo a gambe larghe si scagliò velocemente verso l’inerme Jeese il quale, come uno scattista, corse velocissimamente senza respirare fino al gladio che ormai era pericolosamente vicino all’avversario. All’arrivo nei pressi del gladio, i due erano praticamente a contatto e già l’imperiale stava piombando l’ascia su uno scoperto Jeese che invece con un gesto improvviso strusciando per gli ultimi passi con le ginocchia sull’arena raccolse il gladio con la mano sinistra e facendo perno in terra con le gambe si trovò alle spalle di quella montagna dove passando il gladio alla mano destra caricava il colpo proprio tra l’articolazione femorale e quelle tibiale, spezzando la rotula e recidendogli la gamba destra di netto. Gli insegnamenti del padre e la sua indole calma furono essenziali per quel gesto così preciso e ardito, ma Jeese pensava più che il lavoro di mannaia nella macelleria di Tito gli fosse davvero tornato utile.

Il gigante stavolta urlò dalla paura e dallo sgomento, rovinando sull’arena insanguinata dal suo stesso sangue e adesso sbigottito pensò al sicuro colpo di grazia che gli avrebbe inferto. Così non fu. Il nostro giovane vincitore invece perfettamente lucido e sicuro si avvicinò presso gli spalti imperiali attendendo la verità dall’Imperatore, il quale attonito, perplesso e incredulo, taceva.

Al contrario, tutta la folla che prima aspettava l’inevitabile morte del suo campione, iniziò ad acclamarlo e ad urlare di gioia vera, festosa ed inaspettata. Il vero Dio era al loro fianco e gli imperiali erano ormai lividi e preparati al peggio. La folla ancora esultava quando una nube di polvere avvolse Ulver il barbaro e qualcosa attraeva l’arto reciso all’interno di essa.

Jeese salutò baciando il gladio verticalmente e poi ponendolo orizzontalmente sulla fronte rimanendo ancora in attesa svariati secondi.

Gli astanti vedendo la nube di polvere dell’arena addensarsi ed avvicinarsi alle spalle di Jeese iniziarono a rumoreggiare intimoriti. Fu così che dalla polvere che si rischiariva e depositava al suolo apparve una lama che perforò il rene sinistro e il costato destro di Jeese in successione ed infine i legamenti posteriori del ginocchio sinistro. Senza un lamento Jeese era in ginocchio e pensò a sua madre Schanta e agli amici tutti.

In quel momento Ulver riappariva e con un ultima pugnalata il metallo si fece strada tra la clavicola e il collo del nostro martire, aprendo un orrido squarcio da dove il sangue inizio a fiottare per oltre un metro seguendo il placido ritmo cardiaco del povero dei poveri. Fu spinto a terra e subito dopo ed il contendente urlò selvaggiamente ancora il suo nome che echeggio nel silenzio di un’arena incredula e terrorizzata. Dopo qualche istante gli imperiali preso coraggio e mossi ora da puro astio immotivato, iniziarono ad urlare: “Marte ha avuto la meglio! Il Dio ha parlato! Dov’è il vostro Dio!?”

Qualcuno dapprima iniziò ad accorgersi che il sole stava affievolendosi dietro una cortina nera e più passava il tempo, più la cortina si addensava sopra il nuovo circo, mentre le persone iniziavano ad urlare dal panico per via di tutti quegli accadimenti. Fu così che senza pioggia iniziò una tempesta di fulmini che fece i primi danni ed appiccò incendi.

Proprio in quel momento il barbaro esclamò: “Allora esiste!”, poco prima di essere colpito da un fulmine che lo fece esplodere in una buona dozzina di grossi pezzi.

Ora l’urlo del suo nome sarebbe stato solo un pallido ricordo nelle menti delle genti ed al suo posto il suono di tuoni neri ed oscuri di tonalità bassissima presero posto nel cuore degli astanti. Gli incendi divamparono furiosamente per tre giorni ovunque sospinti dal vento, fino al 25 Dicembre. Poi piovve torrenzialmente prima che riapparisse limpido il Sole.

I sopravvissuti poterono raccontare che Dio dopo essersi adirato e dopo aver purificato la città dagli empi, pianse il suo figlio meraviglioso. In quegli stessi giorni, in un’area lacustre dove pochi anni prima Jeese era approdato in Italia, il profilo di una donna di colore apparve tra le acque ed è visibile tuttora. Claudia dopo qualche mese ebbe due gemelli, un maschio ed una femmina, entrambi con un occhio azzurro chiaro e limpido come una fonte di alta montagna e l’altro di un verde intenso e profondo come un bosco, seguitando a vivere tra i nuovi fratelli e sorelle senza che il nome del loro padre si sapesse mai.

Anche dopo secoli è capitato che alcuni tra i più sensibili avvertissero nei pressi di colle Oppio una presenza che non trova pace che va ripetendo: “Esiste! Avete ingannato Ulver romani!

Tutto accadde in un mattino ma da quel giorno niente fu come prima. L’impero cadde e si risollevò più volte ma la speranza era nuovamente risorta, così come la luce eterna di un Sol Invictus

Giulio Febbo

Condividi
Twitter
WhatsApp

SI RICORDA CHE

  • Tutte le visite guidate sono con prenotazione obbligatoria.
  • In risposta alla prenotazione, verrà comunicato luogo e ora dell’appuntamento.
  • La presenza e la puntualità sono una forma di rispetto verso gli altri
  • Per qualsiasi info contattare il numero: 340.19.64.054

STORIA E SCIENZA

27 gennaio, per non dimenticare

27 gennaio 1945: le truppe sovietiche aprirono le porte del campo di concentramento di Auschwitz, rivelando al mondo l’orrore del

FACEBOOK

error: Content is protected !!