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Erode Attico e Annia Regilla

A tagliare l’Appia Pignatelli c’è una via intitolata ad Erode Attico che prosegue in un’altra: Via Annia Regilla.

Ma chi erano Erode Attico e Annia Regilla?

Marito e moglie, immortalati in quella che era stata una loro proprietà, uniti per sempre.

Tiberio Claudio Erode Attico era un personaggio ricchissimo ed assai famoso, nato tra il 100 ed il 101 d.C.; fu retore, filosofo e precettore degli imperatori Lucio Vero e Marco Aurelio.

Aveva ereditato le sue ricchezze dal padre che pure si chiamava Erode Attico, un ateniese che discendeva da una delle più antiche e nobili famiglie dell’Epiro, gli Eacidi, e che vantava fra i suoi antenati addirittura il famoso Achille.

Erode Attico figlio usò l’immenso patrimonio ereditato e diventò famoso costruendo grandiose opere pubbliche, soprattutto in Asia minore e ad Atene, dove ancora oggi si ammirano lo stadio delle Olimpiadi e l’Odeon sotto l’Acropoli; inoltre si devono a lui lavori a Canosa di Puglia e naturalmente a Roma.

La moglie di Erode Attico era Appia Annia Regilla, discendente dall’antica famiglia dei Regoli, che annoverava fra gli antenati quell’Attilio Regolo morto durante la I guerra punica. Annia Regilla andò in sposa ad Erode all’età di 14 anni; le leggi promulgate da Augusto nel 18 a.C. prescrivevano ai 12 anni l’età minima per il matrimonio e la consuetudine prevedeva che una ragazza si sposasse ben prima di raggiungere i venti anni.

Spettava al padre scegliere il marito e una figlia poteva rifiutare il fidanzato qualora avesse fondati dubbi sulla sua moralità. Non brillava sotto questo aspetto la famiglia del greco Erode Attico, il prescelto per Regilla, ma la sua favolosa ricchezza e le sue aderenze presso la corte imperiale finirono col compensare i dubbi sui trascorsi suoi e della sua famiglia. La sua immensa ricchezza aveva infatti una provenienza che ha dell’inverosimile: l’omonimo padre, disperato perché non sapeva di che sfamare i propri figli, come si suol dire “si dette di testa al muro”. Ma la sua testa fu più dura del muro e, sfondatolo, gli restituì un enorme tesoro, pare ivi nascosto da Xerse.

Sposare uno straniero, fatto inconsueto per una aristocratica romana, significava dover lasciare la propria città per andare a vivere nella casa del marito. Si trovava infatti a Maratona ed era all’ottavo mese della sua sesta gravidanza quando all’età di 34 anni fu uccisa da un liberto.

Uno scandalo che travolse la famiglia imperiale da cui ebbe origine un processo clamoroso che si concluse con una contestatissima sentenza. Siamo di fronte al primo femminicidio narrato dalla storia, le cui dinamiche si configurano esattamente nell’attuale definizione giuridica.

Questa vicenda è raccontata da Filostrato ne “Le Vite dei sofisti”: Erode Attico, uomo ricchissimo e coltissimo – era un retore, filosofo e precettore – fece picchiare dal proprio liberto Alcimedonte la moglie Annia Regilla, colpevole ai suoi occhi di chissà quale mancanza. La donna, all’ottavo mese di gravidanza, morì a causa di parto prematuro indotto dalle percosse ma Erode, portato in giudizio dal cognato Bradua, fu assolto per insufficienza di prove, probabilmente grazie agli agganci politici.

Questa la relazione ex post. Ma in quel 160 d.C. la notizia della morte di Regilla arrivò a Roma come fosse stata una disgrazia: morte per complicazione durante un parto, cosa non così insolita da sentire per l’epoca (circa il 5-10 % delle donne moriva per questo motivo).

Tuttavia la situazione cominciò a prendere una piega diversa. Improvvisamente il fratello di Regilla, Annio Bradua, console in quell’anno, si levò in senato per lanciare contro il potente cognato una terribile accusa: Regilla non era morta di parto ma era stata brutalmente fatta uccidere dal raffinato quanto collerico marito a seguito di un diverbio.

Non sappiamo esattamente in quali termini e da quali fonti Bradua – divenuto il capo della famiglia dopo la scomparsa del padre e console da un anno – stando a Roma, potesse aver saputo della morte della sorella. Molto probabilmente le notizie filtrarono da persone della casa di Erode, forse servitori di Regilla, dal momento che Bradua non avrebbe altrimenti saputo indicare con tale esattezza le cause, le circostanze dell’episodio e i nomi dei due responsabili.

Roma viveva uno dei periodi più equilibrati dell’impero e da 22 anni vi regnava Antonino Pio, un imperatore illuminato. Era già vedovo da diversi anni e alla memoria della moglie Faustina, discendente dalla nobile famiglia degli Annii, aveva dedicato un grande tempio al Foro, lungo la Via Sacra. Viveva unicamente per lo Stato.

La notizia della morte di Regilla giunse come un fulmine a ciel sereno: la vittima era infatti legata alla famiglia imperiale da stretta parentela e suo marito, Erode, vi si era introdotto al massimo livello, essendo stato prima prescelto dall’imperatore come maestro ed educatore dei suoi due figli adottivi, Lucio Vero e Marco Aurelio – i quali divennero di lì a un anno a loro volta imperatori – e poi per aver sposato la nipote prediletta dell’imperatrice, divenendo così membro della famiglia imperiale e ricevendo una cospicua dote, tra cui la villa sull’Appia Antica.

Il giallo, vista la notorietà dei personaggi coinvolti, turbò la quiete del popolo romano e investì l’intera città, a partire dalla casa imperiale, legata a vittima e carnefice a stretto filo.

Lo scandalo fu enorme: membri autorevoli della famiglia imperiale, che per nobiltà, ricchezza e posizione sociale detenevano un potere influente, vennero direttamente coinvolti. Nella Roma di quell’epoca apparve subito pericoloso schierarsi per l’una o per l’altra fazione. Si tentò di evitare il clamore di un processo, ma l’accusa di Bradua fu implacabile.

I senatori furono così costretti ad assumersi le loro responsabilità, in quanto, visto il rango dei personaggi, il giudizio era di competenza del Senato.

Il tribunale ascoltò quindi l’accusa e la difesa esposte direttamente dalle parti.

Erode, mostrandosi disperato per la perdita della moglie, continuava a protestare la propria innocenza, mentre Bradua continuava a infierire nell’accusa.

Gli innocentisti sostenevano che, reclamando la condanna del cognato, Bradua mirasse a rientrare in possesso della ricca dote portata dalla sorella; i colpevolisti, tra i quali molti membri dell’aristocrazia senatoria che mal tolleravano la rapida ascesa di Erode, dipingevano l’ateniese come uno straniero senza scrupoli, un falso gentiluomo. La casa imperiale, preoccupata dallo scandalo in cui suo malgrado si trovava coinvolta, taceva. Il clima era dunque tesissimo. E frattanto saliva al trono Marco Aurelio.

I senatori, in presenza di testimonianze contraddittorie, non se la sentirono di pronunciare quella condanna che all’inizio sembrava scontata. E così Erode, a seguito di un processo ricco di colpi di scena, venne infine assolto per mancanza di prove.

Filostrato, unica fonte del processo e pregiudizialmente favorevole a Erode, scrive che egli fu assolto perché «gli giovò a sua difesa in primo luogo il fatto di non aver mai dato un tale ordine contro Regilla, in secondo luogo di averla rimpianta oltre misura dopo morta. E sebbene venisse calunniato anche di questo come fosse un atteggiamento simulato, la verità finì col trionfare». Se dunque Erode ammise che Regilla era stata uccisa, seppure non per suo ordine, non si comprende come egli stesso non abbia subito denunciato il liberto Alcimedonte, né perché questi non abbia avuto alcuna condanna e anzi abbia continuato a vivere presso Erode, che adottò addirittura le sue due figlie. E poiché non è credibile che Alcimedonte abbia ucciso Regilla di sua iniziativa senza subire alcuna conseguenza, l’unica spiegazione dell’episodio criminoso e dell’esito del processo è che entrambi fossero responsabili dell’omicidio, ma che furono assolti grazie al silenzio dell’imperatore, devoto amico del suo maestro Erode. Un’equivoca posizione della casa imperiale che, con la riaffermazione della morte naturale di Regilla, si scrollava di dosso l’ombra dello scandalo.

Ma l’opinione pubblica continuava ad insinuare che egli, con le sue ricchezze, avesse corrotto i giudici e fosse stato agevolato dal fatto che tutto avvenne sotto l’impero di Marco Aurelio.

E così per smentire queste voci Erode, una volta scagionato dall’accusa, si abbandonò a plateali manifestazioni di lutto: stese drappi neri lungo le pareti della villa sull’Appia, regalò i gioielli della moglie ai templi degli dei, ed in suo onore ristrutturò tutto il fondo, a cui diede il nome di Triopio in ricordo del famoso santuario di Demetra, della quale la moglie era sacerdotessa.

Eccesso di zelo indice di cattiva coscienza, insinuarono i colpevolisti; un pietoso omaggio alla memoria della moglie, replicarono gli innocentisti.

Ma la parola Triopio richiamava anche il nome di Triopas, re di Tessaglia, che, avendo osato tagliare la legna del bosco sacro a Demetra, era stato da lei punito con una fame insaziabile che lo avrebbe portato alla morte. Messaggio implicito di Erode era dunque tener lontani i malintenzionati?

Non brillava certo di modestia, Erode Attico, tanto consapevole della propria notorietà che sulla sua tomba fece scrivere: «Giacciono in questo sepolcro i pochi resti di Erode figlio di Attico, nativo di Maratona, mentre la sua fama è sparsa in tutto il mondo».

Peccato che oggi in pochi ne conoscano le gesta!

Anna Maria

Visita guidata tematica: Le Donne di Roma

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