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Il Ghetto: la memoria di Roma

L’immagine di copertina è uno scatto della Socia Simona Malaguti, durante lo svolgimento della visita del 31 marzo 2019
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Passeggiando per le vie che ospitarono la comunità israelitica di Roma e che oggi è meta di turismo locale e forestiero, è difficile immaginare quell’affollato e disordinato complesso urbano che è stato il Ghetto.

Il quartiere ebraico era un fazzoletto di terra molto più circoscritto di quello visitabile oggi ed era situato all’incirca tra le attuali Via del Portico d’Ottavia, Piazza delle Cinque Scòle e il Tevere.

Quest’area fu inizialmente quella d’elezione della Comunità ebraica che qui volle concentrarsi per conservare ed osservare le proprie tradizioni. Ma con la bolla Cum nimis absurdum, il Papa Paolo IV Carafa la trasformò in luogo di prigionia, tant’è che gli Ebrei, anche quelli che non avevano abitato sino ad allora nella “Giudecca”, furono costretti a risiedervi dal tramonto all’alba, con gravi conseguenze qualora avessero violato il “coprifuoco”.

Si costituì così una cittadella ebraica, il Ghetto o Serraglio, all’interno di Roma, un’enclave creato dalla volontà di un Papa; paradossalmente, la stessa sorte toccò al Papa nel 1929, quando con i Patti Lateranensi firmati l’11 febbraio 1929 fu creata la città-Stato del Vaticano, circondata da mura e inserita nel tessuto urbano della città di Roma.

Certo, seppure il concetto del territorio coincida, nota distintiva del Ghetto restano le vicissitudini storiche della comunità ebraica che da oltre 2000 anni vive nell’Urbe.

Il Ghetto si presentava, prima delle demolizioni e delle ricostruzioni ottocentesche, come un dedalo di viuzze contorte, affollato di gente e sede di botteghe di cenciaioli e artigiani.

A fatica i panni stesi al sole e le stoffe delle botteghe riuscivano a dare un po’ di colore a quelle stradine chiuse, con costruzioni sviluppate in altezza, per la ristretta aerea ove era stata concentrata la comunità, che avevano creato passaggi stretti, a tratti coperti, tra le case in un pittoresco contesto, ove erano inglobati ruderi classici, torri medievali e palazzi gentilizi che finirono per far parte della vita del Ghetto.

Farsi un’idea, oggi, di quel fitto tessuto architettonico e umano che circondava le mura del Ghetto è pressoché impossibile, eppure un’immagine di quella colorita realtà è fornita dall’unico isolato ancora esistente, la Manliana. Attraverso un archetto di passaggio, si accede in un cortiletto ben tenuto e conservato, che ci immette in una realtà medievale, tanto da darci la sensazione che quell’archetto sia effettivamente un passaggio che riavvolge la teoria del tempo. Ma l’emozione passa in fretta quando si riflette sulle difficili condizioni di vita che viveva la comunità, quando le inclementi inondazioni del Tevere flagellavano l’intero Rione Sant’Angelo.

Durante una recente campagna di scavo in Piazza delle Cinque Scòle e nella parte di strada prospiciente il ponte Fabricio – il Ponte de li Giudii, così lo chiamavano i Romani – sono emerse le fondamenta di case, i piani terra negli scantinati delle antiche sinagoghe e il tracciato dei vicoli, tutto fino ad allora presente solo nelle carte d’archivio. Si è scoperto così che le strutture del Ghetto appoggiavano direttamente sui resti delle fondazioni di epoca traianea.

Da un punto di vista sociale, queste sopravvivenze fisiche costituiscono le radici di una realtà scomparsa, quella che si può scorgere passeggiando per il rione con maggiore consapevolezza.

Poche sono le famiglie ebraiche ancora residenti in quel che rimane dell’Antico Ghetto e pochissime sono quelle che vi vivono da tempo. Sono rimasti soprattutto gli anziani, ma per l’intera Comunità ebraica romana, stimata in circa 15.000 residenti, il Ghetto resta un punto di riferimento emotivo e culturale, il luogo della memoria collettiva dove ci si riunisce per celebrare le feste religiose e per ricordare la triste storia di quei luoghi: dalla strada intitolata al piccolo rimasto ucciso dall’attacco dei Fedain nel 1982, Stefano Gaj Taché, alle Stolpersteine, ovvero le pietre d’inciampo, installate dal 1995 in tutta Europa dall’artista tedesco Gunter Demnig, dei sampietrini di ottone lucente recanti i nomi dei deportati non più tornati a casa.

Un “inciampo” metaforico nella nostra mente, nella memoria, nella storia di Roma.

Anna Maria

Visita guidata tematica: Segreti e misteri del Ghetto ebraico

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