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#Iorestoacasa#

Viviamo un momento epocale che non solo ricorderemo per il resto della nostra vita, ma sicuramente riempirà intere pagine di storia per i nostri posteri.

In questi giorni, pensando ai libri di storia, molti si sono chiesti come mai trattino con dovizia di particolari le guerre, raccontandone cause, fasi e conseguenze e parlino invece in maniera solo superficiale delle epidemie, tralasciando le conseguenze che solcano indelebilmente l’animo umano.

Eh sì, perché quello che stiamo vivendo ora è stato vissuto da tante generazioni prima di noi.

Una delle prime pandemie di cui si ha traccia è quella febbre tifoide durante la guerra del Peloponneso, nel V secolo a.C. Il focolaio della cosiddetta “peste di Atene” colpì gran parte del Mediterraneo orientale. Nelle cronache del VI secolo d.C. trova invece largo spazio il morbo di Giustiniano, una pandemia di peste bubbonica che, sotto il regno dell’imperatore Giustiniano I, dal quale prese il nome, si abbatté sui territori dell’Impero bizantino e in particolar modo su Costantinopoli. Ma fu la grande peste nera del 1300 la peggiore per la popolazione europea, che ne uscì decimata. La pandemia fu probabilmente importata dal Nord della Cina. È stato osservato che, tra il 1347 e il 1480, la peste colpì le maggiori città europee ad intervalli di circa 6-12 anni affliggendo, in particolare, i giovani e le fasce più povere della popolazione. A partire dal 1480 la frequenza iniziò a diminuire, attestandosi ad un’epidemia ogni 15-20 anni circa, ma con effetti sulla popolazione non certo minori. Visto il continuo ripresentarsi dell’epidemia, le autorità cittadine europee, un po’ dovunque, adottarono misure per prevenirle o, perlomeno, per limitarne gli effetti. Milano fu una delle prime città a muoversi in tal senso, istituendo un ufficio di sanità permanente nel 1450 e realizzando il lazzaretto di San Gregorio nel 1488, progettato con la possibilità di espandere la propria capienza in caso di epidemia conclamata. In quegli anni si capì anche che la segregazione domiciliare piuttosto del confinamento in un lazzaretto fosse il sistema migliore di contenimento dell’epidemia. La peste del 1630 abbattutasi nell’Italia settentrionale è certamente la più ricordata, forse perché Alessandro Manzoni ne “I Promessi Sposi” ne ha raccontato le sofferenze del fisico e dell’anima.

Anche nei secoli successivi si sono succedute periodiche pandemie di colera e di vaiolo, ribattezzata la “malattia democratica” perché uccideva tanto i poveri quanto i sovrani, come Luigi XV di Francia.

Ma in questi giorni la memoria va a quello che accadde un secolo fa, quando l’Umanità fu messa in ginocchio da quella epidemia chiamata “influenza spagnola” che tanti punti in comune ha con il COVID-19 determinando un momento storico simile a quello che si vive oggi e che molti ne hanno avuto una narrazione diretta dai propri nonni: segregazione domiciliare, protezione respiratoria. Come oggi, un dejavu

Ecco come tutto iniziò.

Nel 1917, a Philadelphia, duecentomila persone si accalcarono in strada per salutare i soldati in partenza per il fronte. Si rivelò una pessima idea: tre giorni dopo, tutti i 31 ospedali della metropoli statunitense furono presi d’assalto da pazienti con gravi sintomi influenzali. Di tutta fretta, le autorità bloccarono qualsiasi movimento in città, ma ormai era troppo tardi: entro la fine della settimana si contarono circa 4500 morti.

Quei soldati americani sbarcarono in Europa per prendere parte alla Grande Guerra. La prima fase dell’epidemia scoppiò dunque sul finire Prima Guerra Mondiale e fu certamente favorita dalle condizioni umane e igieniche in cui dovettero combattere i soldati sui vari fronti, all’interno delle trincee.

Conclusa la guerra, però, la popolazione mondiale si ritrovò nuovamente “in trincea” contro un nemico invisibile e letale: l’influenza spagnola, la prima pandemia moderna causata dal virus H1N1.

La cosiddetta “influenza spagnola” nacque dunque tra i soldati americani, esattamente – si stima ormai – nello stato americano del Kansas e già alla fine del 1917 aveva contagiato almeno 14 campi militari statunitensi. Il motivo per il quale sia passata alla storia come “influenza spagnola” è perché i primi a parlarne furono i giornali spagnoli. La stampa degli altri Paesi, che era sottoposta alla censura di guerra, negò a lungo che fosse in corso una pandemia, sostenendo che il problema fosse confinato esclusivamente alla Spagna. Una terribile negazione che favorì la diffusione del virus che tra il 1918 e il 1920 uccise tra i 50 e i 100 milioni di persone, provocando più vittime della Grande Guerra. Si ripresentava infatti ad ondate virulente e sempre di maggiore intensità. Si capì allora che quando una persona infetta starnutisce o tossisce, più di mezzo milione di particelle virali possono essere diffuse nelle vicinanze. Gli alloggi sovraffollati e i massicci movimenti delle truppe impegnate nella prima guerra mondiale affrettarono la pandemia e probabilmente accelerarono la trasmissione e la mutazione del virus. Alcuni ipotizzano che la velocità di propagazione del virus sia stata favorita dal sistema immunitario dei soldati fortemente indebolito dalla malnutrizione, dallo stress dei combattimenti e dalla paura degli attacchi chimici, rendendoli così particolarmente suscettibili alla malattia. Un ulteriore importante fattore a livello globale che favorì la propagazione della pandemia fu l’incremento dei viaggi. I moderni sistemi di trasporto resero più facile a soldati, marinai e semplici viaggiatori civili di spostarsi nel mondo e diffondere inconsapevolmente la malattia. La caratteristica più sorprendente della pandemia fu il suo tasso di mortalità insolitamente alto tra le persone sane di età compresa tra 15 e 34 anni.

Quanto sin qui detto, in considerazione che in quel 1918 il trasporto aereo era appena agli esordi e l’influenza spagnola si diffuse comunque per il Pianeta, seppur viaggiando in traghetto o in ferrovia, risparmiando appena poche realtà, desta grande timore, perché gli scambi umani contemporanei sono stati molto più intensi e veloci del secolo passato. Gli aeroporti, ove oggi regna un vuoto spettrale, erano luoghi a traffico intenso.

Ma un altro aspetto è spaventoso: mentre la spagnola si manifestava a tre giorni dal contagio, il Covid-19 (dove “CO” sta per corona, “VI” per virus, “D” per disease, ovvero malattia, e “19” indica l’anno in cui si è manifestata) ha un’incubazione di ben 15 giorni, dando luogo ad un contagio a progressione geometrica, e questo spiega la valanga che ci ha investiti, facendoci ritrovare dall’oggi al domani immersi nella pandemia.

Queste le cronache e la storia, dalla quale c’è sempre da imparare. Ma l’intento non è trattare i dati che ogni giorno ci angosciano e ci fanno vedere tanto lontano il ritorno alla vita che ci è stata sottratta da un nemico invisibile, subdolo quanto acerrimo.

Stiamo qui a dissertare di noi, esseri umani, dei nostri sentimenti feriti, dei nostri affetti perduti, delle nostre vite violate e cambiate per sempre.

Quando ogni giorno il “bollettino di guerra” ci annuncia i morti, come fossero i caduti in una battaglia invisibile, i contagiati, come fossero i feriti al fronte, e i guariti, come fossero i reduci, sappiamo che dietro quei numeri ci sono persone che non hanno avuto o non hanno il conforto e il calore dei propri cari e che si ritrovano catapultati in una battaglia senza sapere contro chi si stia combattendo e da chi si sia stati attaccati. A corona di quei numeri al fronte, ci sono migliaia di famigliari a casa angosciati e speranzosi che non sia il centralino dell’ospedale a far squillare il telefono, perché quando accade, la notizia lacera il cuore non solo per la perdita, ma per il dolore di non aver potuto raccogliere quell’ultima lacrima, quell’ultimo sguardo, quell’ultimo respiro.

File di bare interminabili in attesa della dimora eterna, perché la macchina della morte è diventata molto più ampia dello spazio che la contiene. O code umane in Cina, in attesa di ricevere le ceneri dei propri cari. Queste visioni ci riportano a quella magistrale pagina dedicata dal Manzoni al dolore di una madre (La madre di Cecilia) che adagiava il corpo inerte della figlioletta sopra altri corpi, perché allora come oggi, il funerale non è consentito.

E poi i vivi in città deserte, affacciati alla vita solo per l’essenziale, senza vivere, perché il nemico è invisibile e si teme di incontrarlo.

Si accetta dunque quell’#Iorestoacasa#, lo slogan gentile che intima la segregazione domiciliare, unico sistema efficace di contenimento del male, sentendosi inermi e inutili a confronto di quegli uomini e donne in prima linea che ogni giorno combattono per salvare vite umane, pur consapevoli che nel proprio lavoro-missione possono trovare la morte. Unica utilità, dunque, per quegli uomini al fronte è il senso civico di restare a casa.

Ma dietro lo slogan si generano altri drammi, dalla solitudine alle difficili convivenze.

La società contemporanea è fatta di tanti “single”, quella condizione che pochi giorni or sono era quasi un vanto ma che oggi significa esattamente la sua traduzione: SOLO. Tante persone vivono sole e la distanza sociale le sta privando di ogni contatto umano, anche con i parenti più prossimi o amici. Giornate che trascorrono tutte uguali, private delle attività sociali o lavorative consuete, private del godimento del sole che splende fuori dalle mura di casa, che scalda l’aria ma non l’anima!

La distanza sociale che priva i consueti incontri tra figli adulti e genitori non più giovani, rubando quegli istanti di vita che non torneranno mai più, perché i giorni passano e con essi la vita.

E poi le convivenze difficili che, forzate dalla segregazione, spesso degenerano nei drammi famigliari che già riempivano le cronache dei giornali.

E infine il mondo circostante: chiusura di spazi pubblici, delle scuole, dei musei e dei teatri. Garantiti esclusivamente le necessità alimentari, le farmacie, trasporti e servizi essenziali, come quelli postali e finanziari, l’informazione. L’unica filiera che garantisce ancora lavoro diretto o da casa. L’unica filiera che garantisce la sopravvivenza in un mondo improvvisamente diverso, vuoto.

Mille congetture sull’avvento di questo nemico che ha attaccato fraudolentemente l’uomo tecnologico, ma solo perché l’uomo invincibile non può ammettere di essere stato sconfitto dall’invisibile.

E allora, finalmente, ci si accorge di una Natura violentata e sottomessa che si è alla fine ribellata e ci si accorge anche che non è lo smartphone o la televisione che manca, anzi sono gli unici fedeli compagni.

E quindi infine si riflette di cosa veramente si è privati: mancano gli abbracci dei genitori e dei propri figli; manca la tavolata famigliare e il vociare di tutti i commensali; manca il poter ammirare la bellezza di un quadro, quel ponte tra passato e presente, tra l’artista e l’ammiratore, che abbatte le barriere temporali; manca quel the con un’amica che si è sempre rimandato e le intime confidenze; il calore di una voce da vicino e non filtrata dal telefono o da una webcam. Manca l’umano.

Non si ha nostalgia del guidare l’auto o dello shopping, ma di passeggiare all’aria aperta e godere della bellezza dell’aria di primavera, di quella primavera che è tornata vera, perché quella Natura che si è ribellata è tornata nuda, pulita, restituendo una stagione che si era perduta, offuscata dall’inquinamento.

E dopo la Natura tornerà l’Uomo, migliore, perché avrà capito che è vulnerabile e che il tempo è un dono prezioso, perché avrà capito che la vita ha un tempo e per questo ha valore.

Anna Maria

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