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La Madonna del Divino Amore

Tra alti e bassi, tra momenti di indifferenza religiosa e altri di grande fervore, la devozione dei Romani verso la Madonna del Divino Amore è sempre stata caratterizzata, nei secoli, da qualcosa di visceralmente intimo, familiare. Maria è davvero come “una di casa”; e non è mai stato un segno di poco rispetto anzi, casomai, il contrario.

La storia del Santuario è legata, come tante altre chiese di Roma, non ad una apparizione della Madonna, ma ad un’antica immagine della Vergine in trono con in braccio il Bambino, sovrastati entrambi dalla colomba dello Spirito Santo, simbolo del Divino Amore. Il dipinto era posto su una delle torri di cinta dell’antico Castello dei Leoni (dalla cui corruzione nasce “Castel di Leva”), che nel 1740, anno del primo miracolo, appariva già diroccato, forse distrutto da un terremoto.

Fin dal 1081, quando per la prima volta se ne trova menzione in una bolla di Gregorio VII, quella terra era appartenuta all’Abbazia di San Paolo. Successivamente, la proprietà passò alla chiesa di Santa Sabina e, quindi, nel 1295, alla potente famiglia dei Savelli – nel cui simbolo araldico sono due leoni rampanti, appunto – che dette mano alla costruzione del castello. Probabilmente, come era costume dell’epoca, tutte le mura erano decorate ad affresco e su una delle torri, forse per mano di un allievo della scuola romana di Pietro Cavallini, fu eseguito il dipinto della Madonna, che in attesa di compiere il primo miracolo – come sottolineano i versi di un poeta dialettale – “stette lì, sola soletta, pe’ tre secoli bòni, allo scoperto“.

In quell’epoca, infatti, un po’ tutta la campagna romana, ma in particolare quel tratto, era arida e abbandonata. D’inverno vi si spingeva qualche pastore per far pascolare il gregge. In tanta desolazione, l’unico segno di vita e di conforto era appunto il dipinto della Madonna, ai piedi della quale la sera i pastori si riunivano per recitare il rosario.

Nel 1740, in un pomeriggio di primavera, accadde il miracolo. Un viandante, probabilmente un pellegrino diretto a San Pietro, si smarrì per i sentieri di quella campagna celebrata da Vittorio Alfieri con i versi “…vuota, insalubre region che Stato ti vai nomando, aridi campi incolti squallidi oppressi estenuanti volti” e da Gioacchino Belli: “…Fà dieci mija e nun vedè nà fronna! Imbatte ammalappena in quarche scojo! Dappertutto un silenzio come n’ojo“. Insomma, vaste estensioni incolte, punteggiate di qualche antico rudere, aride d’estate e buone solo per il pascolo delle pecore d’inverno. Smarrirsi per quelle terre, pertanto, non doveva essere proprio così piacevole. Allo stesso modo affrontare un pellegrinaggio per pregare sulla tomba dell’apostolo Pietro era un vero sacrificio: alla fatica del cammino e all’asprezza delle intemperie cui si era esposti, si aggiungeva il rischio di cadere vittima in qualche imboscata tesa da briganti o banditi. Ebbene, il nostro viandante, avendo scorto alcuni casali e il castello diroccato in cima ad una collina, vi si diresse di buon passo nella speranza di ottenere qualche informazione utile per rimettersi sulla giusta via. Ma proprio mentre stava per fare ingresso nel castello, venne assalito da un branco di cani rabbiosi che lo circondarono, senza offrirgli scampo. Il poveretto alzò lo sguardo atterrito al cielo e solo in quel momento si accorse che sulla torre c’era un’immagine sacra. L’appello alla Madonna fu intenso e disperato e la risposta fulminea: i cani, che ormai gli erano addosso, di colpo si fermarono, quasi ad obbedire ad un ordine misterioso. Al richiamo dell’urlo del viandante accorsero i pastori e, dopo aver ascoltato quell’incredibile racconto, lo rimisero sulla strada per Roma. Il pellegrino, la cui identità è rimasta sconosciuta alla storia, narrò a chiunque incontrasse e dovunque andasse la vicenda, tanto che quel luogo, Castel di Leva, come riportano le cronache del tempo, divenne assai famoso: “Non si distingueva più il giorno dalla notte e continuamente era un accorrere di pellegrini sempre più devoti e numerosi, che ricevevano numerose grazie“.

Ben presto si decise di trovare una casa alla Madonna: nel 1742 l’immagine fu staccata dall’antica torre e intronizzata nella chiesetta di Santa Maria ad Magos, ma la scarsa perizia provocò danni irreparabili e in più aggravati da incauti e numerosi restauri successivi. Il trasferimento della miracolosa immagine accese un’intensa controversia tra il Capitolo di San Giovanni in Laterano, alla cui giurisdizione apparteneva la chiesetta, e il Conservatorio di Santa Caterina della Rota ai Funari, proprietario di Castel di Leva e quindi del dipinto. A dirimere il contenzioso dovette intervenire la Sacra Rota che, con sentenza definitiva dell’8 marzo 1743, decise per l’appartenenza dell’immagine al Conservatorio di Santa Caterina, precisando che le offerte dei pellegrini dovevano servire per la costruzione di una nuova chiesa.

In breve si diede inizio ai lavori, per i quali si incaricò l’architetto campano Filippo Raguzzini. In poco meno di un anno la nuova chiesa, edificata sul luogo del miracolo, era pronta per ospitare l’immagine della Madonna. Il 19 aprile, lunedì di Pasqua 1745, si procedette alla nuova intronizzazione. Le cronache del tempo annotano un’immensa folla di Romani e di abitanti dei Castelli, con tanto di gonfaloni e di confraternite, che fecero da corona al carro che trasportò la prodigiosa effigie dalla chiesetta di Santa Maria ad Magos al Santuario appena eretto. Per l’occasione papa Benedetto XIV concesse ai partecipanti l’indulgenza plenaria.

Era il 31 maggio 1750, anno giubilare, quando la solenne dedicazione della chiesa e dell’altare maggiore al Divino Amore fu presieduta dal Vescovo di Padova, il Cardinale Carlo Rezzonico, futuro papa Clemente XIII.

Il Santuario divenne rapidamente il centro di una fervente pietà popolare e quindi meta di numerosi pellegrinaggi. E fu così che i Romani, nei momenti più bui e più tristi, cominciarono ad invocarela grazia e la protezione della Madonna del Divino Amore.

Per i festeggiamenti del centenario dal primo miracolo si restaurarono la chiesa e l’altare, si indorarono nuovamente gli stucchi e da Roma si portarono drappi, damaschi e altri arredi sacri, si fece arrivare al Santuario anche un’abbondante provvista d’acqua e la stessa via Ardeatina, strada lungo la quale sorge il Santuario, ridotta in uno stato pessimo, venne sistemata, costruendo ponti e allargando e spianando diversi passaggi. I festeggiamenti iniziati il 7 giugno 1840, domenica di Pentecoste, si protrassero per una settimana. Alle celebrazioni, narrano le cronache del tempo, partecipò anche il re Michele di Portogallo. Ma questi festeggiamenti portarono ad un cambio di rotta: al fenomeno di autentica devozione popolare, si sovrappose quello delle cosiddette “madonnare” o “minenti”: le popolane romane, per lo più erbivendole e lavandaie, che celebravano la loro festa annuale proprio alla Pentecoste andando ai Castelli Romani e, passando dal Santuario – poiché la ricorrenza della Madonna del Divino Amore coincide con la Pentecoste – provocavano un gran baccano, nella cornice di bancarelle di porchetta, pecorino, fave e vino che vennero sistemate proprio a ridosso della chiesetta. Il pellegrinaggio al Santuario di Castel di Leva divenne così l’occasione, quando non il sinonimo, di gita “fuori porta”. Tale commistione tra sacro e profano, suscitò imbarazzo tra i sacerdoti ma non dovette impensierire la Madonna, che, anche in quegli anni, continuò ad elargire grazie a quanti l’invocavano con fede.

Il luogo più bello e commovente che si può ammirare nel visitare il Santuario della Madonna del Divino Amore è la sala degli ex voto, che è come una sala dedicata all’”imprevisto”. Gli ex voto sono migliaia. Tanto che il Santuario stenta a contenerli tutti. Molti sono un segno di riconoscenza alla Madonna per una “grazia ricevuta”, altri una semplice invocazione d’aiuto e di protezione. Esprimono la storia e la fede di un popolo. I miracoli, lo sappiamo bene, non sono tutto nella fede cristiana, ma sono certamente l’avvenimento eccezionale attraverso il quale Dio scuote l’uomo e quasi lo costringe a badare a lui, ai valori di cui vuole renderlo partecipe. Affermava Sant’Agostino: “In manibus nostris sunt Codices, in oculis nostris facta” (nelle nostre mani abbiamo le Sacre Scritture, nei nostri occhi i fatti).

Nonostante siano trascorsi secoli, ancora oggi tutti i sabati a mezzanotte, dal primo dopo Pasqua a fine ottobre, parte da Piazza di Porta Capena il pellegrinaggio verso la Madonna del Divino Amore. Cinque ore di marcia a piedi lungo la stretta via Ardeatina con le torce in mano. All’arrivo, la Messa. Alla conclusione, la scampagnata.

E’ talmente forte questo legame fra Roma e la Madonna del Divino Amore che una popolare canzone romana dice che “la Madonna del Divino Amore fa le grazie a tutte l’ore“.

“Dimenica di là Rinzo, Panzella,
Io, Roscio e le tre fije der tintore
Vòrzimo annà a fa ‘no sciàlo in carrettella
A la Madonna der Divin Amore”.

(Gioacchino Belli, 1831, sonetto “La devozzione der Divin’Amore”)

Il miracolo recente più noto è quello del 1944: Papa Pio XII, vista l’imminenza della battaglia per la conquista di Roma tra i nazisti e gli Alleati, invitò solennemente i Romani a pregare per la salvezza della città. Il 4 giugno, giorno in cui terminava l’ottavario, si decidevano le sorti di Roma. Il voto dei Romani alla Madonna del Divino Amore affinché la città fosse risparmiata dalla distruzione della guerra fu di correggere la propria condotta morale e la costruzione di un nuovo santuario per realizzare un’opera di carità: quella stessa sera i tedeschi lasciano Roma e le truppe alleate fecero il loro ingresso trionfale in città. Per questo Pio XII nel 1944 le attribuì il titolo di “Salvatrice dell’Urbe”.

La Madonna del Divino Amore ha dovuto attendere fino all’8 gennaio 1996 affinché il cardinale vicario Camillo Ruini ponesse la prima pietra di quello che, per il Giubileo del 2000, è diventato il nuovo santuario promesso in quel lontano 1944. Una promessa mantenuta. Una.

E fu così che in questi giorni tristi e bui, anche Papa Francesco rivolgesse la sua supplica alla Madonna del Divino Amore. Ecco le sue parole:

E che Dio o ci aiuti!

Anna Maria

 

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