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Lo sport nell’Antica Roma

Le discipline sportive nell’antica Roma, pur essendo di diretta derivazione da quelle greche, avevano una concezione completamente diversa.

Sostanzialmente nell’Urbe lo sport era inteso come mezzo di intrattenimento e spettacolo, mentre in Grecia era visto in maniera più spirituale, finalizzato cioè all’elevazione morale e alla gloria degli atleti.

Le gare greche erano infatti incruente e investivano non solo lo sport, inteso come competizione fisica, ma anche altri campi delle attività umane, più concettuali, come il canto e la poesia, perché l’esercizio fisico era inteso come mezzo per perseguire quell’ideale di perfetta fusione tra bellezza esteriore e nobiltà d’animo.

Prima che la Grecia venisse conquistata da Roma, nel 186 a. C. il console e censore Marco Fulvio Nobiliore introdusse nella città i giochi ginnici greci, i certamina graeca, scontrandosi con la società romana che vedeva queste come esibizioni immorali, poiché il senso del pudore dei Romani non tollerava la nudità degli atleti e soprattutto perché questi giochi erano privi di quelle finalità che davano il senso dell’addestramento militare. Apparire nudi in pubblico era considerato disgustoso, tranne che in luoghi e contesti appropriati: quali le terme (originariamente aperte a entrambi i sessi) e le latrine pubbliche.

Quasi 300 anni dopo la stessa sorte toccò a Domiziano: i bacchettoni dei Romani non erano cambiati e continuavano a scandalizzarsi nel veder gareggiare nudi gli agones

L’ultimo imperatore della Gens Flavia costruì un grandioso stadio in Campo Marzio e istituì il certamen capitolinum, dedicato a Giove e che si sarebbe svolto ogni quattro anni. Le Olimpiadi di Roma, insomma.

Nonostante la sacralità dell’evento sportivo, caratteristico della Grecia, divenne a Roma soprattutto spettacolo e intrattenimento collettivo. Pochi furono i Romani che apprezzarono discipline come la corsa, il lancio del peso, del giavellotto e del disco, competizioni nobili che prevedevano una grande preparazione atletica.

Effettivamente, le uniche che trovarono il consenso unanime popolare furono quelle più violente, come il pugilato e la lotta e, campione di apprezzamento assoluto fu il pancrazio, sport di combattimento di origine greca che consisteva in un misto di lotta e pugilato, senza tempo e senza regole (ad eccezion fatta per il divieto di mordere e accecare, pena la fustigazione da parte dell’arbitro o dell’allenatore) che veniva dichiarato terminato quando l’avversario era immobilizzato e impossibilitato a muoversi.

La parola è frutto dell’unione di due termini: Pan, “tutto”, e Kratos, “potenza”, conferendo alla stessa disciplina sportiva il significato di “onnipotenza” e da qui lo scopo e il fine di questo agone atletico: sottomettere l’avversario con qualsiasi tecnica e metodo per diventare il più potente. Alla lotta e al pancrazio venivano attribuite origini mitologiche e divine: si diceva che Teseo, l’eroe vincitore del Minotauro, l’avesse insegnata agli uomini dopo averla appresa da Atena.

Meritevole di nomina è l’episodio di Arrachione: spezzò un dito del piede dell’avversario mentre questo lo strangolava; morì soffocato, il povero Arrachione, proprio mentre l’altro si arrendeva. E così i giudici lo decretarono vincitore… da morto!

L’atleta greco era l’armonia fatta persona, mentre quello romano aveva un aspetto sicuramente meno aggraziato. Alla Villa Romana del Casale, a Piazza Armerina, come anche in quelli ritrovati alle Terme di Caracalla e conservati ai Musei Vaticani, gli atleti romani vengono raffigurati con un corpo tozzo e sgraziato nella muscolatura, molto diverso da quello raffigurato in molte statue della Grecia classica. Nei mosaici di Piazza Armerina sono inoltre raffigurate rarissime scene di sport femminile.

In ogni caso, lo sport-spettacolo preferito dai Romani rimanevano le corse dei cavalli. Gareggiavano le bighe, trighe e quadrighe (a seconda del numero dei cavalli) e avvenivano in grandiose costruzioni a pianta rettangolare, con i lati curvati ad emiciclo. Il primo circo ad essere costruito, rimasto a tutt’oggi il più grande di tutti, fu Circo Massimo. Secondo lo scrittore Tertulliano il termine circus si deve alla Maga Circe, che lo avrebbe ideato per celebrare i giochi istituiti in onore del padre defunto.

Le corse nel Circo, gratuite per il popolo, erano ritenute molto esaltanti, soprattutto perché avevano dei risvolti economici, come dire, piuttosto “moderni”: i corridori erano professionisti e tra il pubblico era diffuso un enorme giro di scommesse. Ogni squadra schierava fino a tre carri per ogni gara. I componenti della stessa squadra si aiutavano tra loro contro le avversarie, provocando i naufragia, spingendo cioè gli avversari contro la spina, tattica perfettamente legale. Gli auriga potevano passare da una squadra all’altra, proprio come al giorno d’oggi avviene per gli atleti professionisti.

Domiziano tentò di dirozzare il guerriero popolo romano, affiancando alle gare fisiche quelle intellettuali, per le quali fu eretto l’Odeon, in prossimità dello stadio. Prima di lui, anche Augusto durante il suo regno cercò, senza successo, di reintegrare i giochi greci dove prevaleva in particolare lo spirito agonistico e nei quali la competizione e l’esercizio fisico fungevano da sano allenamento per il corpo. Ma degli Actica, istituiti per celebrare la sua vittoria su Antonio e Cleopatra, già una decina di anni dopo nessuno aveva più memoria. Stessa sorte toccò ai Neronia, gare di resistenza fisica, ma anche di canto e poesia.

Insomma ai Romani piaceva il sangue e andare all’anfiteatro Flavio, nome corretto del Colosseo, e vedere i gladiatori, le vere star dell’epoca, combattere era sicuramente la forma di spettacolo più gradita. Non a caso Giovenale, vissuto fra l’anno 50 e il 140 d.C., riteneva che “panem et circerses”, fosse il metodo bassamente demagogico degli imperatori per assicurarsi il consenso del popolo: distribuzione del grano e spettacoli pubblici.

Anna Maria

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