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Il Canto degli Italiani

Il Canto degli Italiani – questo il nome originale del nostro Inno Nazionale – fu scritto da Goffredo Mameli, allora giovane studente e fervente patriota, in un contesto storico caratterizzato da quel patriottismo diffuso che già preannunciava i moti del 1848 e la prima guerra di indipendenza.
Utile tener presente il panorama politico della Penisola in quel 1847 anno in cui l’inno fece il suo debutto: con la conclusione del Congresso di Vienna, l’Europa era in un clima di restaurazione. Caduto Napoleone, infatti, si cercava di annullare, particolarmente in Italia, quelli che erano stati gli effetti benefici del bonapartismo, ossia l’aver divulgato e cercato di applicare i principi fondamentali di democrazia della rivoluzione francese. La Penisola era quindi di nuovo frammentata in “staterelli” fra cui solo il Regno di Sardegna, con capitale Torino, lo Stato Pontificio, che andava dalla Romagna a Terracina, e il Regno delle Due Sicilie, retto a Napoli dai Borbone, avevano un ragionevole respiro territoriale.
Goffredo Mameli nacque il 5 settembre 1827. Per chi crede nell’astrologia, il suo segno zodiacale era quello della Vergine, che gli esperti dicono indice di perfezionismo e di infaticabilità negli impegni.
Infatti visse intensamente in un intreccio di vicende che lo videro protagonista di imprese letterarie come di entusiasmi di piazza, oltre che di qualche tenero amore e di affetti familiari, fra i quali, su tutti, quello per la madre Adelaide. Era di statura media, con gli occhi vivissimi, una zazzera biondo-castana e una barba da cospiratore che, unita ai baffi, lo facevano sembrare 10 anni più vecchio.
Giuseppe Mazzini lo descriveva «bello e non curante della persona, di indole amorosamente arrendevole e beata di poter abbandonarsi a fiducia, pur fermissimo in tutto ciò che toccasse la fede abbracciata». Disse anche che maneggiava con la stessa disinvoltura la lira del poeta e la sciabola del guerriero.
Il suo trampolino di partenza fu l’agiatissima Genova del secondo quarto dell’Ottocento: era un ragazzo che apparteneva ad una famiglia agiata e non avrebbe neanche avuto bisogno di esporsi, perché le leggi del tempo consentivano alle classi ricche, pagando, di mandare alla chiamata di leva un altro al posto del loro figlio. Ma Goffredo Mameli non si avvalse di questa facoltà, perché questa guerra voleva farla, gettandosi dove c’era davvero da combattere in prima linea. Il suo merito più grande fu la visione unitaria che ebbe del Risorgimento: non uno Stato che annetteva gli altri, ma tutti insieme che insorgevano per diventare finalmente quel popolo che troppo a lungo non eravamo stati.
La strofa chiave del suo inno è: «Dall’Alpe a Sicilia, Dovunque è Legnano; Ogn’uom di Ferruccio Ha il core e la mano; I bimbi d’Italia Si chiaman Balilla; Il suon d’ogni squilla I Vespri suonò».
Sacrificò a ventidue anni la propria vita battendosi per la Repubblica Romana, il “poeta con la sciabola” che scrisse i versi e andò in prima persona ad applicarli sui campi di battaglia.
L’aspetto storico più sorprendente de Il Canto degli Italiani è la rapidità con cui le strofe scritte da Goffredo Mameli si diffusero e diventarono una canzone di battaglia. La missiva con il testo fu consegnata all’amico Michele Novaro quando questi si trovava ospite a Casa Valerio. Fu un colpo di fulmine. Novaro aprì il foglio, lesse, si commosse. Tutti gli chiesero cosa fosse. «Una cosa stupenda” esclamò il maestro, e lesse ad alta voce, sollevando d’entusiasmo tutto l’uditorio. Ebbe l’impulso di sedersi al cembalo e di tentare lì per lì di strappare allo strumento una melodia che possedesse altrettanta forza. Non ci riuscì. E allora corse a casa sua, accese la lucerna a olio e senza neanche togliersi il cappello si mise all’opera.
Il Canto degli Italiani, come Mameli chiamò la sua creazione, cominciò a circolare fra ottobre e novembre del 1847, stampato su foglietti volanti, mentre la data ufficiale di debutto fu il 10 dicembre 1847, quando Il Canto degli Italiani, congiuntamente firmato da Mameli e Novaro, venne presentato ai Genovesi e ai patrioti di varie regioni convenuti nel capoluogo ligure.
De Il Canto degli Italiani è anche significativa la giovane età di entrambi gli autori: Goffredo Mameli appena ventenne, Michele Novaro non ancora venticinquenne, entrambi genovesi. Novaro quasi un figlio d’arte: suo padre Gerolamo era macchinista presso il teatro Carlo Felice, mentre la madre Giuseppina Canzio era la sorella di un noto pittore e scenografo teatrale. Convinto patriota e anche lui suggestionato dal sogno dell’unità nazionale.
Goffredo Mameli aveva scritto: «Giuriamo far libero Il suolo natio: Uniti con Dio, Chi vincer ci può?». E così l’inno divenne il grido di battaglia della Repubblica Romana e delle guerre d’Indipendenza, riecheggiò nelle piazze insieme al tricolore e alla figura di Garibaldi e diventò mito e addirittura leggenda.
È il 17 marzo 1861 e con la legge n. 4671 Vittorio Emanuele II proclama ufficialmente la nascita del Regno d’Italia, assumendone il titolo di re per sé e per i suoi successori. Nasce quindi la necessità di avere un inno nazionale. Il problema si sarebbe potuto risolvere scegliendo sin da principio l’inno che Goffredo Mameli aveva scritto tredici anni prima  e non solo perché aveva lungamente scandito i momenti di esaltazione come quelli di amarezza del movimento patriottico, ma soprattutto perché non era un inno imposto dal vertice e non era bagaglio di questa o quella realtà regionale. Ma non fu così, perché c’era il problema istituzionale dello stato monarchico e comprensibilmente vi era l’esigenza che l’inno portasse il sigillo della sua casa dinastica, mentre l’inno di Mameli era a chiare lettere di conio repubblicano. Ci si limitò quindi a confermare, come inno del Regno d’Italia, la Marcia Reale d’Ordinanza che era stata scritta nel 1831 per il Regno di Sardegna dal piemontese Giuseppe Gabetti.
La breccia aperta a Porta Pia fu un’occasione per rispolverare con massimo entusiasmo il principale repertorio delle canzoni patriottiche. Risuonarono, certo, le note della Marcia Reale, ma ancora più forti furono i cori che intonavano Il Canto degli Italiani, con l’accompagnamento degli ottoni della fanfara dei bersaglieri.
Il 25 luglio 1915 Arturo Toscanini eseguì Il Canto degli Italiani a una grande manifestazione interventista a Milano, due mesi dopo la nostra entrata in guerra.
Con il graduale instaurarsi della dittatura dopo il 1922, apparve un diverso tipo di canti “patriottici” e il 28 agosto 1932 il segretario del PNF, Achille Starace, pubblicava il “foglio delle disposizioni” con cui vietò «[…] in modo assoluto che si cantino canzoni o ritornelli che non siano quelli della Rivoluzione e che contengano riferimenti a chiunque non sia il DUCE […]». E così Il Canto degli Italiani divenne il canto d’esilio di molti oppositori al fascismo fuoriusciti dal Paese.
Nel 1945, a guerra terminata, Arturo Toscanini diresse a Londra l’esecuzione dell’Inno delle Nazioni composto da Verdi nel 1862 e comprendente anche Il Canto degli Italiani, sebbene l’inno ufficiale fosse ancora la Marcia Reale.
All’Assemblea Costituente della neonata Repubblica italiana, si pensò che, come per la bandiera, sarebbe stato opportuno dedicare anche all’Inno nazionale un articolo della Costituzione. L’idea fu caldeggiata in particolar modo dall’allora ministro della Difesa, il repubblicano Cipriano Facchinetti, ma non trovò applicazione per motivi banali o forse solo per la fretta. Il beneplacito all’Inno di Mameli fu dato con decisione del Consiglio dei Ministri del 14 ottobre 1946. La scelta non era assolutamente scontata: fu presa in considerazione l’ipotesi del Va’ pensiero dal Nabucco di Verdi e anche quella dell’Inno del Piave, usato come soluzione-tampone dopo l’armistizio del 1943. Qualcuno avrebbe desiderato un inno nuovo di zecca, a sottolineare in maniera più incisiva il passaggio da monarchia a repubblica… ll Canto degli Italiani iniziò così ad essere oggetto di critiche, tant’è che a più riprese si parlò della sua sostituzione; molti vi vollero vedere rimembranze fasciste: «I bimbi d’Italia / si chiaman Balilla»…..Ma quei “molti” sapevano che Balilla fu il giovane da cui si originò, il 5 dicembre 1746, con il lancio di una pietra a un ufficiale, la rivolta popolare del quartiere genovese di Portoria contro gli occupanti asburgici durante la guerra di successione austriaca? Questa rivolta portò poi alla liberazione della città ligure. Semmai, furono questi versi di Mameli a ispirare il nome dell’Opera nazionale balilla, ossia dell’ente istituito dal fascismo che inquadrava, tra i propri ranghi, i giovani italiani dai 6 ai 18 anni.
Dobbiamo al Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, in carica dal 1999 al 2006, l’attivazione di un’opera di valorizzazione e di rilancio de Il Canto degli Italiani come uno dei simboli dell’identità nazionale:
«[…] È un inno che, quando lo ascolti sull’attenti, ti fa vibrare dentro; è un canto di libertà di un popolo che, unito, risorge dopo secoli di divisioni, di umiliazioni […]».
Solo grazie al Presidente Ciampi, dunque, “Il Canto degli Italiani” è diventato ufficialmente l’Inno d’Italia e solo il 17 novembre del 2005!
Il Canto degli Italiani riassume tutto il Risorgimento, rappresentandone quasi il simbolo, senz’altro la canzone più popolare e applaudita in un repertorio ricchissimo di canti patriottici.

Rileggiamola insieme

Fratelli d’Italia,
L’Italia s’è desta;
Dell’elmo di Scipio
S’è cinta la testa.
Dov’è la Vittoria?
Le porga la chioma;
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.
(richiamo al fatto che gli italiani appartengono a un unico popolo e che sono, quindi, «Fratelli d’Italia». Dal primo verso originò poi uno dei nomi con cui è conosciuto Il Canto degli Italiani)

Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò,
(un forte richiamo alla storia dell’antica Roma poiché in quell’epoca questo periodo storico era studiato con attenzione; in particolare, la preparazione culturale di Mameli aveva forti connotati classici: la coorte era un’unità militare dell’esercito romano corrispondente alla decima parte della legione. Con «Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte, l’Italia chiamò» si allude alla chiamata alle armi del popolo italiano con l’obiettivo di cacciare il dominatore straniero dal suolo nazionale e di unificare il Paese)

Noi fummo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
Bandiera, una speme;
Di fonderci insieme
Già l’ora suonò.
(la speranza, la “speme“, che l’Italia, ancora divisa negli stati preunitari e quindi da secoli spesso trattata come terra di conquista, si raccolga finalmente sotto un’unica bandiera fondendosi in una sola nazione. Mameli sottolinea quindi il motivo della debolezza dell’Italia: le divisioni politiche)

Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò

Uniamoci, amiamoci;
L’unione e l’amore
Rivelano ai popoli
Le vie del Signore.
Giuriamo far libero
Il suolo natio:
Uniti con Dio,
Chi vincer ci può?
(incita alla ricerca dell’unità nazionale con l’aiuto della Provvidenza e grazie alla partecipazione dell’intero popolo italiano finalmente unito in un intento comune. L’espressione “per Dio” è un francesismo: “da Dio”, “da parte di Dio”, ovvero con l’aiuto della Provvidenza). È l’idea mazziniana di un popolo unito e coeso che combatte per la propria libertà seguendo il desiderio di Dio. «Unione, forza e libertà» e «Dio e popolo», sono i motti della Giovine Italia; riconoscibile l’impronta romantica del contesto storico dell’epoca).

Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò,

Dall’Alpe a Sicilia,
Dovunque è Legnano;
Ogn’uom di Ferruccio
Ha il core e la mano;
I bimbi d’Italia
Si chiaman Balilla;
Il suon d’ogni squilla
I Vespri suonò.
(riferimenti a importanti avvenimenti legati alla secolare lotta degli Italiani contro il dominatore straniero: Mameli vuole infondere coraggio al popolo italiano spingendolo a cercare la rivincita)

Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò,

Son giunchi che piegano
Le spade vendute;
Già l’Aquila d’Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia
E il sangue Polacco
Bevé col Cosacco,
Ma il cor le bruciò
(la decadenza dell’Impero austriaco, che faceva ampio uso alle truppe mercenarie, le “spade vendute”, che sono “deboli come giunchi”, perché, combattendo solo per denaro, non sono valorose come i soldati e i patrioti che si sacrificano per la propria nazione)

Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò – Goffredo Mameli

Mi posi subito al cembalo coi versi di Goffredo sul leggio e strimpellavo, assassinavo con le dita convulse quel povero strumento, sempre con gli occhi all’inno, mettevo giù frasi melodiche, l’una sull’altra ma lungi mille miglia dall’idea che potessero adattarsi a quelle parole. Mi alzai scontento di me, presi congedo e corsi a casa. Là, senza pure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte. Mi tornò alla mente il motivo strimpellato in casa Valerio: lo scrissi su di un foglio di carta, il primo che venne alle mani, nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo e per conseguenza anche sul povero foglio” – Michele Novaro

Anna Maria

Visita guidata tematica: Il Vittoriano, meraviglie di un Regno

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